Era proprio uno di quei giorni vuoti che hai voglia di dare fuoco ai cassonetti dei rifiuti e diventare un affiliato della 'ndrangheta, che un braccio mi afferrò appena svoltato il vicolo che fa rientranza ed è nascosto dalla strada, uscendo da dove ogni settimana – con nomi e travestimenti diversi - andavo a donare il sangue per averne in cambio la colazione. Tiratomi nell'androne di un palazzo il proprietario del braccio disse: «Sono la quaglia, seguimi!». Gli andai dietro tenendomi a distanza di sicurezza e senza sapere bene che cosa mi aspettasse. All'inizio pensai a qualche nuova strategia dei vaticanensi per cogliermi in fallo o estorcermi informazioni che, d'altronde, non avevo. Dopo aver camminato per cinque chilometri attraversando 23 volte la strada e fermandoci a chiedere il prezzo ad alcune prostitute e dopo che alcuni uomini chiesero a me: «Ehilà, bellissimo, quanti ne vuoi?», girammo l'angolo – perché in ogni caso c'è sempre un angolo da girare, come diceva il maestro delle elementari ferendoci le orecchie graffiando la lavagna con il compasso gigante per disegnare gli angoli giro - e ci dirigemmo verso un centro commerciale. Poco prima di entrare dalla porta principale il mio uomo, la quaglia, rallentò e facendomi un gesto pacato con la mano mi fece avvicinare e disse: «Camerino sette reparto biancheria fra dieci minuti. Prima passa dal reparto latticini e fruga nel frigo, dietro le mozzarelle di bufala». Bene, allora latticini, bufala, biancheria, camerino dieci. Poche informazioni, ce la posso fare. Guardo il supersupermercato. Per fortuna non è uno di quelli da cui sono stato bandito come ospite indesiderato e solamente perché ho esercitato il mio diritto a provare ad avere un pasto completo da consumare sul posto: «Lo porta via o glielo incarto?». Entro nell'ipermercato e le luci mi assalgono, il mio soprabito copertonato attira l'attenzione di un vigilante con il collo largo come un battesimale. Io pronto lo saluto sorridendogli e vado oltre. Supero le cassiere allineate con le mani che promettono artriti, svolto a destra dopo lo scaffale dei biscotti e l'odore di formaggio mi travolge. Mi avvicino e inizio a tremare, non so se per l'ansia o per i frigo aperti carichi di latte, mozzarelle, burro, mascarpone, scamorze. Ripeto nella testa «Bufala, bufala, bufala dove sono le bufale». Eccole, mi guardo intorno, nessuno in vista tranne una signora che tasta le ricotte con le sue dita grinzose due frigo più avanti. Affondo la mano tra le mozzarelle e inizio a frugare. La signora intanto si avvicina. Io esploro senza levarle gli occhi di dosso. Più lei si fa avanti tastando tutti i formaggi con le sue dita artritiche più divento sospettoso. Gli occhiali quadrati e pesanti e il cappello rosso non mi dicono niente di buono. Comincio ad essere teso davvero teso, nervoso davvero nervoso, mi dico che «sononervosodavveronervoso» mentre frugo ma quello che tocco è solo mozzarella e mozzarella. La vecchia ormai mi è vicina. Mi irrigidisco – cazzo non ho trovato niente se non mozzarelle, cazzo, che cosa devo cercare, cazzo qualcuno mi dia un aiuto – la vecchia si ferma e mi guarda. Io proprio in quel momento penso che non devo abbandonare la postazione. Inizio a incurvarmi senza volerlo per fare la testuggine e parare i colpi. La vecchia mi guarda e aspetta. Io proprio in quel momento tocco qualcosa è di gomma, abbastanza dura, la tiro fuori. Di scatto con un balzo m allontano e puntando l'oggetto contro la vecchia comincio a urlare: "Ah, ti ho fottuto, vecchia bastarda, ah non mi avrete, non mi avrete, stronza, stronza, stronz…". Ma proprio in quel momento gli occhi mi cadono su ciò che ho tirato fuori dalle mozzarelle: è una papera, una papera di gomma. Una papera di gomma come quelle che nei film usano per la vasca da bagno. Tutti e due ci fermiamo e osserviamo la papera di gomma. Io sono attonito – cazzo che vuol dire? penso – ma mentre resto di sasso e cerco di prendere l'aria di quello che resta di sasso, la vecchia si avvicina lentamente, sta per aprire bocca, mentre con l'altra mano afferra una mozzarella di bufala da mezzo chilo. Inizio ad andare in ansia, premo la papera che suona un peep secco e così comincio a sparare verso la vecchia puntandole contro la papera e spernacchiandola a più non posso. Scappo via a razzo senza guardarmi indietro, mentre con il braccio verso la vecchia, stringo la papera e mi allontano tra una raffica di peep-peep-peep. Intanto schivo tutto ciò che la vecchiaccia mi tira appresso cercando di starmi dietro: mozzarelle, yogurt, panetti di burro. Sgommo sulla curva per girare l'angolo dietro i bancofrigo e inizio a risalire tutta la catena alimentare attraversando reparti su reparti: frutta e verdura, affettati, beveraggi vari, cibi salati, biscotti e fette biscottate, cioccolata e affini, panettoni, pane, pasta, sughi. Svolto agli shampi e bagno schiuma e riacquisto la calma rallentando nel reparto premaman e neonati. Respiro affannosamente appoggiato allo scaffale di tettarelle, pappine e biberon. Ho sicuramente seminato la vecchia e non c'è nessuno che mi segue. Apro un omogeneizzato alla pera e lo mando giù in un colpo solo. Vicino a me tutte queste donne sferiche che camminano con calma e ruttano silenziosamente. A me viene voglia di coricarmici di sopra, di rimbalzarci, di rotolarci, di avere il diritto di paternità su tutte quelle colline, quei golfi al contrario e solo per poterci fare un giro, per dire «sentiamo se dà un calcetto» e in verità tastare quelle cose rotonde, calde, senza ritegno, spudorate nel loro mostrarsi arrotondate. Stringo tra le mani la papera di gomma. La plastica fredda mi riporta alla realtà pianeggiante. Cazzo, sì, finora tutto bene. Okay, obiettivo biancheria intima adesso. Mutande in saldo e merletti più ruvidi della pelle di squalo mi indicano che sono nel posto giusto. Arrivato al camerino concordato entro dentro di fretta tirandomi dietro tutto ciò che mi viene sottomano. Per fortuna ho la freddezza di simulare interesse e sorridendo come una battona mi ritrovo con una sottana a righine «che mi slanciano» dico lanciando un urletto, un pacco di mutande cotonedentrolanafuori «per mio povero nonnino» e culotte di pizzo rosa – ma a quel punto non mi viene più niente da dire e riesco solo ad ancheggiare e a parlare con l'accento della mia vicina di casa dell'est Europa, le cui mutande ammiro ogni mattina stese ad asciugare sul balcone, mentre annaspo cercando di chiudere la porta sotto gli occhi delle commesse e delle altre clienti. «Cazo, cazo, cazo» dico mentre mi appoggio a pannello di plastica sbattendo testa contro appendiabiti, e lo faccio sempre con voce stridula e accento slavo. Quando me ne accorgo ripeto con il tono più maschio e italiano che riesco a fare: «CAZZZZZO, CAZZZZZISSIMO, CAZZZZZO». Recuperata una parvenza di dignità maschilista concentrandomi sul ricordo della camminata del nonno per il corso principale, penso subito che non dovrò chiedergli di scambiarci i vestiti come in quel libro di Greene Il nostro agente all'Havana. Ma purtroppo l'unica cosa a cui riesco a pensare è di scambiarmi i vestiti con lui, che vorrei indossare il suo impermeabile. Desidero davvero spogliarmi e che la mia quaglia mi dia una nuova pelle, un impermeabile come il suo per travestirmi e cambiare vita, vorrei che mi dicesse qualcosa come: «Tu sei l'eletto». Vorrei sentirgli esclamare entusiasta che fossi stato scelto proprio io per salvare il mondo, per portare a termine la missione del nonno, per dare un senso alle mie giornate. O che almeno mi invitasse a pranzo, e penso proprio «perché non mi ha invitato a pranzo se davvero mi deve dire qualcosa di importante». Come posso salvare il mondo a stomaco vuoto? Cazzo, è molto più difficile, cazzo. I supereroi non sono mai a digiuno, cioè prendi Batman, quando salva Gotham City è sazio e ben pasciuto. Perché devo essere proprio io il primo supereroe affamato? Ruberò ai ricchi per dare ai poveri, ma prima fatemi fare un panino, diamine. Mentre sto cercando di convincermi ripetendo che i miei vestiti in fondo sono belli e comodi, ma la sottoveste che intanto «ho messo su questa cosina», mi dona davvero tanto, girandomi e rigirandomi davanti lo specchio, ecco che bussano alla porta. Io trattengo il fiato e comincio a sudare, ma non riesco a rispondere. Un altro colpo alla porta e ormai sono in un bagno di sudore. Io rispondo e non so perché mi viene fuori un «ehm, ehm, ehm», finché non riesco a dire con voce stridula e femminea: «Occupatoooooooo, perestroika!». E non so davvero, non riesco a spiegarmi, perché continui a fare la voce in falsetto. Passa qualche minuto che trascorro in culotte e sottoveste con la testa premuta contro lo specchio ripetendo con un filo di voce: «ho paura, ho paura, ho paura», alternato ad un «ho fame, ho fame, ho fame», mentre stringo a mani giunte la mia papera di gomma. Poi sento che nel camerino affianco entra qualcuno. Mi zittisco e resto in ascolto. Sento un peep provenire dal camerino affianco. Prendo la papera e premo lentamente rispondendo con un altro peep. Quello ribatte: peep-peep. Io faccio: peep-peep-pausa-peep. Lui: peep-pausa-peep. Io: peep. Lui: peep. Io: peeppeep. Lui: peep-peep. Andiamo avanti così per circa dieci minuti e devo dire che comincio a divertirmi, provo a fare variazioni sonore producendo peep sedendomi sopra la papera e saltandoci sopra. Inizio a pensare che siamo in tanti nel mondo chiusi in un camerino con addosso biancheria femminile che creiamo armonie stringendo tra le mani papere di gomme. Così stringo la papera e penso che, sì, dobbiamo essere in tanti e chissà quante personalità: ingegneri, medici, professori, cardinali con papere dal fiocchetto rosso e io sono stato scelto per essere uno di loro e penso che non mi sento più solo a pensare a migliaia di camerini in tutti i supermarket del mondo con dentro migliaia di uomini che intonano le loro papere e si sentono meno soli. Sento che si sta creando un'intesa musicale con il mio vicino di camerino e trasportato dall'estro creativo mi sono dimenticato del perché mi trovo chiuso lì dentro, finché dall'altro camerino sento arrivare un: «Cazzo, sono io. Sono la quaglia!». Io: peep.
sabato 23 maggio 2009
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