domenica 18 ottobre 2009

1. F A R E C O L A Z I O N E

La colazione è il pasto più importante. Non c'è niente di meglio per cominciare bene la giornata. Lo sanno tutti. Nessuno che ho incontrato che avesse più fiducia nello spuntino di metà mattina o nel pranzo. Anzi alcuni saltano il pranzo, altri affermano amareggiati di bere solo un caffè al mattino. Poveretti nessuno, però, che giudichi male una buona colazione sostanziosa. Tutti quanti a convincersi che l'importante è cominciare bene la giornata e anche cominciare bene e basta. Pronti a benedire un grande esordio e poi come vuole andare vada. Appena nato era bellissimo, il primo bacio, il primo amore, il primo giorno di scuola, il primo e così sia. Lo sapeva anche mio nonno, figurarsi, e mio nonno era un uomo intraprendente e determinato, uno che non aveva mica paura dell'inizio, della prima cucchiaiata, del primo boccone. Ma che se l'inizio non ci spaventava al nonno e a noi, arrivarci al primo boccone era un'altra cosa. Quello sì che era un problema. Fare bocconi in genere era un problema. A quei tempi non c'era mica da mangiare, se non quello che si riusciva a tirare fuori dalla terra che c'avevi e dagli animali. E se come noi, non avevi né l'una, né gl'altri, allora restava da mangiarsi le mani e inventarsi ogni giorno una cosa. Il nonno era un uomo che non aspettava che la fame ci prendesse o che qualcuno arrivasse a darci da mangiare da non si sa dove e non si sa come. La provvidenza non aveva a che fare con la colazione. Se il giorno non ci si era riempiti (non ci si era gonfiati, sai? Perché se ci pensi la bocca e lo stomaco si gonfia e si sgonfia quando si mangia e ci si tiene il tempo, ci si tiene il tempo) gonfiati la bocca e la pancia, di notte presa la doppietta tra le mani, coltello nel fodero cucito dalla nonna e attaccato alla cintura, forcone legato sulle spalle e usciva in strada a cercare di ammazzare tutti gli animali notturni che incrociava. E quelli che non gli attraversavano la strada li andava a prendere nella tana. A casa poi li spellava e li friggeva interi in una grande padella che si era costruito da solo ai tempi della guerra, quando da friggere c'erano rimaste solo le cavalcature. Il nonno prestava servizio alla marmitta dopo essere passato dall'artiglieria con scarsi risultati o meglio risultati troppo diversi rispetto alle vedute ristrette dei ranghi militari. Il suo problema era l'entusiasmo. Perché per l'entusiasmo ("per troppo entusiasmo relegato ai servizi di corvèe") non si riusciva di farlo smettere di sparare e mentre sforacchiava tutto quello che c'era, chiedeva urlando: «un pezzo più grosso, proiettili più grandi ancora più grandi, nemici più grandi, amici più piccoli, montagne da abbattere, abababbaaaa, abababbaaaa!!». Gli animali li friggeva e ce li faceva trovare la mattina come colazione. In piedi dritto dritto vicino al tavolo da cucina, mestolo in mano dritto verticale, affermava con tono serio, tutto bello compito, meditato, da vecchio saggio che la sa lunga, eh già: «La colazione è il pasto più importante. Lo sanno tutti. Così state a posto per tutto il giorno. Eh? Eh?». Oh, quindi ci si riusciva in qualche modo e di mangiare si mangiava e non erano tempi da farsi domande su cosa si mangiava. Apri, chiudi, mastica e manda giù.

Cazzo, però, un giorno finirono tutti i topi, cani, gatti, volpi, muli lasciati al fresco la sera, ma non finiva la nostra fame. E non posso dire che "cazzo" per dire questa cosa della fame che un giorno comincia. In ogni cosa del mondo, dopo averne digerite tante ma mica troppe, mi pare di capire, esiste sempre una sproporzione. Soprattutto se le cose del mondo sono cose che cominciano e che poi non lo sai se finiscono del tutto. E la fame non è una cosa che un giorno finisce o che si perde per sempre dopo avercela avuta per un po' di tempo. Non è una cosa che se arrivi tardi poi non la trovi più – mi spiace, non ne abbiamo più, è finita e provi a ritornare domani - cioè che si può perdere così come si perde un autobus e poi basta aspettare la corsa successiva – «il numero cinque è già passato?». La fame non si può cancellare come una macchia e non se ne parla più e la prossima volta, mentre mangi la zuppa stai più attento e ti bardi con il tovagliolo. Sembra che la fame sia il prossimo autobus che attraversa puntuale lo stomaco, il sugo che crolla dal panino al prossimo morso. La fame è la fame e il mezzo di nascondimento della fame, che è mangiare e digerire e tutta quella processione che trasforma un corpo in un altro corpo, non è nient'altro che un altro modo di misurare il tempo. Misurare e rimisurare è cosa da saperla fare e mettercisi d'impegno e il nonno di pazienza non ne aveva mica tanta. Un tipo entusiasta come lui che non aspetta il tempo e al bus preferisce andare a piedi e far tutto da solo, in tutta questa storia di una cosa che ritorna e ritorna e ritorna e non è che hai risolto il problema una volta per tutte e poi stare lì a guardarti i pollici e dirti come sono stato bravo quella volta lì che ho messo a posto le cose per sempre, non ci si trovava a suo agio, proprio per niente il nonno. Dopo il disappunto finale, che il disappunto, ora lo so, messo alla fine è sempre un inizio, ma già eravamo e siamo ancora stanchi di cominciare, il nonno non si perse d'animo e decise di passare altri animali per il padellone: bipedi questa volta. È così che cominciò, lo trovò infine sto fatto di iniziare, dare le sue benedizioni attraverso fuoco, olio e padella di stagno pesante. Cominciò. Fare fuori tutti quelli che gli capitavano a tiro. Arrivò anche la preoccupazione. Certo per noi convitati. Pensa bene a cosa mangi, e spezzaclavicole. La nostra preoccupazione era cosa avremmo trovato in cucina la mattina a colazione una volta che ci fossimo alzati, quale scena orrorifica, quale sugo di vicino di casa e il nonno ci avesse accolto con tanto di grembiule e forchettone. E un sorriso da promessa e minaccia. Uccise tutti quelli che passavano davanti casa e altri li andava a cercare, tutti quelli che incontrava. Cominciò a fare fuori i netturbini, poi fece fuori i fornai. E quelli che per caso ubriaco non ce la facevano a tornare a casa. Infine prese a curare con metodo la catena alimentare dei lavoratori notturni e giù con farmacisti, medico di guardia, vigilanti, ladri scassinatori di negozi, ladri svaligiatori di appartamenti, ladri svaligiatori della case dei ladri usciti per svaligiare gli appartamenti e i negozi. Tutti tranne le puttane, «no, le puttane no», perché quelle le usava come esche per gli altri tizi. Ecco, appunto, perché faceva fuori anche i clienti delle puttane. Le puttane non mi pare che fossero felici: per donne come loro che lavorano come operai di regime gomito a gomito con la nostalgia senza troppe attese, ma con tanta speranza, il fatto che il nonno trasformasse le ricevute di ritorno, in biglietti di addio era economicamente e politicamente disastroso. C'era da iniziare tutto daccapo con il cliente successivo e quello dopo ancora in una serie di primi amori con i ricordi inebetiti sforacchiati dalla doppietta del nonno.

Ogni mattina tutti in silenzio assecondavamo l'entusiasmo del cacciatore tornato vittorioso con bottino, che urlava di gioia: «Ah, che bello questa mattina finalmente una colazione ricca che ci terrà allegri per tutta la giornata. Ah, che famiglia soddisfatta. Ah, non c'è niente di meglio delle proteine per iniziare la giornata». Mia sorella poi piangeva di nascosto e poi vomitava in bagno tutto quello che mangiavamo. Di rifiutarsi di mangiare, con il vecchio ancora doppietta a tracollo e occhi sgranati, non ce la faceva mica però. Comunque non passò molto che si ammalò e il nonno, passando dalla sua camera dicesse che non era buona nemmeno come antipasto ormai. A quelle parole io e mio fratello tirammo in dentro le panze zeppe di compaesani e per una settimana continuammo ad avere paura di essere scelti come portata principale. Presi e conditi e serviti in tavola a fare da colazione «che la colazione fa tanta allegria». E cazzo, se fa allegria. Ma la ripetizione è più forte di qualsiasi cosa. Ci si abitua a tutto, e cazzo se ci si abitua a tutto, lo avrei capito sempre meglio poi, crescendo un altro po' a furia di ripetermi. Testa contro muro, testa contro muro. Basta ripetere e ripetere e ripetere e poi mentre ci si dimentica di tutti quei cosi, quei cosi rimorsi, i cosi rimossi che sembrano terribili, ma che sempre con il mangiare hanno a che fare e allo stomaco pigliano, che ci fanno scuotere il capo e dire: «No, no, no, non si fa, non si fa, non si fa», ecco che ci si ritrova a considerare nuovi aspetti della faccenda, «ah, ho cominciato a scoprire nuovi orizzonti», nuovi orizzonti e tuo nonno che ammazza il vicino, senza il minimo dubbio che ciò che capita non sia necessario, sia evitabile o per farla breve che c'è stato un tempo in cui non ce n'era nemmeno l'ombra.

Mio fratello, quello piccolo, lungo la strada che ci portava a scuola, iniziò a scommettere con me su chi avremmo trovato la mattina dopo nel piatto, pancia a terra e tutto spennellato del suo grasso. La cosa bella era camminare per la città e incrociando persone dire: «Lui?» «Uhm, no, lui no che la sera resta a casa», «Lei allora che lo sanno tutti che appena il marito si addormenta quella corre dal farmacista che fa il turno di notte» «Ma il farmacista ce lo siamo mangiati la settimana scorsa» «Ma, no quello era il medico di guardia» «No, il medico di guardia era quello che è arrivato a tavola con lo stetoscopio un mese fa, è stato quando il nonno ha detto: sentiamo se vuole dire qualcosa prima? Dica 33? E ti ricordi che abbiamo dovuto ridere tutti? E' stato uno dei primi, ricordi?» «Uff, uno dei primi, uno dei primi, uno dei primi. Sempre con questa storia che io non mi ricordo e tu puoi dire quello che vuoi con la storia di uno dei primi e che all'inizio era così oppure così» «Avevamo fame, va bene?».

Arrivati a scuola gli altri bambini continuavano a deperire e scomparire stretti tra il concavo della fame e il convesso del dolore per la scomparsa dei loro adulti procacciatori di cibo. Concavo o convesso che fosse noi al contrario ingrassavamo senza freno e a me sembrava di mangiare non solo i genitori dei miei compagni, spolparne il corpo e l'involucro esteriore come diceva il prete – perché il prete che veniva a controllarci se avevamo i pidocchi e con la scusa benediceva, battezzava, comunionava, dava scappellotti sulle nuche seguiti di rimbalzo da constatazioni sulla fede e ceffoni sulle fronti, a quelli che entravano il pomeriggio mentre lui russava strafatto di vino da pranzo, da dimenticare e da inzupparci le ostie; che poi mica sapeva chi fossero, quindi passava tra i banchi menando alla rinfusa invocando «San Giuseppe falegname chitemmuartu che mi facesse le mani dei bastoni abbastanza duri da spaccarvi la schiena e farvi bozzi bozzi la testa zozza di insetti e cattive idee», ci ripeteva tutte le volte che gli capitavamo a tiro, perché se la testa era piena di pidocchi e nonostante le sue sberle non ci si riusciva di mandarli via, allora non ci dovevamo comunque preoccupare che i pidocchi all'anima non ci arrivavano, solo il corpo mortale, il corpo zozzo e perituro potevano catturare e farne ostaggio della zozzeria, ma l'anima quella lì che stava dentro di noi e beh, quella potevano anche provarci di colonizzarla l'anima, ma altri erano i nemici e il diavolo satana e i satanassi che potevamo diventare se non avessimo protetto l'anima e poi giù ceffoni sulla nuca e «usa il sapone, cristo!» - , ma ci sembrava di spolpare i bambini, anche i bambini, il loro animo, la loro fiducia: ogni cucchiaiaita di padre o madre era affondare nella felicità dei miei compagni di classe, farsi largo tra le loro vertebre, ogni volta che tiravo giù un boccone le occhiaie del bambino del banco davanti al mio diventavano più profonde. Dei giorni mi ci veniva voglia di infilarci un dito e grattare via il nero e strappare la pelle e vedere se si poteva fare qualcosa per cancellare questo sporco. Il prete aveva troppa fretta e abitudine e non aveva mica capito dove menare, me lo avesse chiesto gli avrei detto io di fare andare via i bambini, di farli scomparire, o almeno le occhiaie, non dico tutto, ma almeno di far andare via le occhiaie con un miracolo, un cazzo di miracolo al momento giusto. Questa era la vita lontano dai pasti. E, vedete, non è che ce ne sentissimo tanto bene a guardare questi tipi scomparire a poco a poco. Li avessimo potuti non vedere più, li avessimo potuti mangiare pure loro, sarebbe stato tutto diverso. Mangi e fai scomparire delle cose dentro di te che poi non vedi più. Ma il prete non ci aiutava, né il nonno. I nostri compagni di classe, senza saperlo, erano protetti proprio dall'assassino dei loro genitori, dalle regole del codice di caccia del nonno: «Non colpire i cuccioli, ma aspetta che crescano e diventino buoni per farci un pranzo completo». Le regole del codice erano misurate sulla possibilità di farne colazioni. E se c'hai delle regole, un codice da seguire e se è un tipo come il nonno ad averlo fatto, allora ci pensi bene prima di fare un po' come ti pare. Così come potevamo deludere il nonno, quindi? Chi aveva il coraggio di affrontarne l'entusiasmo straripante del cacciatore che ha fatto bottino? Soprattutto se non si sa dove finisce il suo territorio di caccia? E poi, in fondo, a dirla tutta, ci si dimenticava in fretta di queste storie del prete spidocchiatore e delle gallerie scavate nei compagni di classe. Le palpebre grondavano in basso, gonfi come gommoni lanciati al largo a galleggiare su acque calme, ci si addormentava la sera con il rumore avanzato dalla mattina dello sgranocchiare – clavicole! clavicole! - e quello in arrivo delle rotule da succhiare. 

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