sabato 17 maggio 2008

Odiare un Natale qualunque

Odiare un Natale qualunque Mio nipote è un duro. Era con noi, a casa, fino a qualche tempo fa. Lui, come noialtri, neanche a dirlo, era, e credo lo sia ancora, del tutto disincantato, disossato da immotivata stanchezza cronica e sfiducia permanente. Sembrava che l’ostetrica, appena nati, mentre stavamo distesi sul lettino a farci ripulire dai resti della nostra vita subacquea, avesse detto a tutti: «Beh, la pacchia è finita, svegliati, non farti illusioni, non sei più al sicuro ormai e non lo sarai mai più, avrai fame, sete e vivrai in un paese che ti sarà straniero. Insomma cazzi tuoi, davvero cazzi tuoi!». Se per noi era ed è così, non è detto che fosse lo stesso per tutti. A quelli che non facevano parte del nostro branco, magari le ostetriche li amavano e gli sorridevano e i ginecologi gli facevano il solletico e soffiavano sulla pancia. Noi facciamo gruppo a sé. Sembra di fare parte di una legione straniera, avamposto della disillusione, solitudine e fuga in una nazione farcita di riti tribali in plastica pvc. I rapporti con i nativi, a causa dei diversi nomi che diamo alle cose e alle diverse civiltà che ci fanno intendere cose diverse per nomi diversi, non possono che essere difficili, così come i tentativi di contaminazione del nostro scetticismo militante da legionari che si scontra con la loro ostinazione nel credere, non in particolare a qualcosa, ma nel credere, nell’avere fiducia, con quel loro modo di camminare di chi ha fiducia, sapete, e insomma voi avete capito quello che voglio dire. Almeno così mi immaginavo che fosse a quei tempi la nostra condizione e oggi, anche se non ci penso più alla legione, mi sento ancora di guardia al fortino con il deserto davanti agli occhi e il moschetto in spalla.Adesso penso che fosse inevitabile che dopo anni che a mio nipote a scuola gli ripetevano sempre le stesse storie del Natale «e che cosa ti porta Babbo Natale? E la letterina l’hai scritta? E il panettone?», decise di cominciare a farla finita con il Natale e tutte le festività e i festoni. A Babbo Natale non ci crede, è chiaro, né ci ha mai creduto, figurarsi. Tutte le storie che gli venivano raccontate lo facevano sbuffare, finché non si imbestialiva e iniziava a pestare i piedi e, infine, se ne andava sbattendo la porta. Allora mio nipote prima di compiere dieci anni aveva già dato fuoco al nostro albero di Natale in finto legno di plastica trovato nell’immondizia la stagione prima, e fuoco anche a quello di tutti i vicini di casa che lo avevano fatto in giardino sbattendolo in faccia a chiunque, senza ritegno. Durante il suo undicesimo natale cominciò a fare riti voodoo con i pastorelli del presepe e dava fuoco alla madonna urlando: «Burn, baby, burn». Nello stesso periodo, con fare impassibile e pieno di metodico puntiglio, girava tutte le chiese che aveva a tiro e spostando nei vari presepi pecore, pastori, bue e asinello, rappresentava orge zoofile dove i poveri re magi, arrivati alla grotta, se la vedevano davvero, davvero brutta. La cosa andò a finire anche sui giornali e la polizia che da tradizione brancolava nel buio disse impersonalmente che «si pensa a delle sette sataniche o ai terroristi o ad una bravata o ai sassi dal cavalcavia o ai rumeni o ai piromani o ai pirati della strada o ai massoni o ai politici della prima repubblica o ai musulmani o alle multinazionali o ad altro che però non possiamo riferire per non intralciare le indagini». Tutta questa raffica di allusioni, altro non era che un tentativo di seminare i giornalisti, ma questi collaboravano alla confusione già da soli con gli occhi appannati per contratto nazionale. Nel caos generale da mostri del presepe e vilipendio al pubblico pudore e alla religione, si ebbe un periodo di rinnovamento della spiritualità con ronde di comuni credenti attorno ai presepi, appostamenti di chirichetti dietro le stelle comete (ma esistono ancora i chirichetti? Oppure si sono persi negli inseguimenti ai sabotatori dei presepi riunendosi in gruppi segreti organizzati?), limiti di distanza per vedere le sacre raffigurazioni e il brevetto dell’allarme salva oscenità per tutte le rappresentazioni di icone religiose, che ogni buon parroco fece comprare dai fedeli, e che ululava non appena le statuette si trovavano in posizioni non approvate dalle mappe per presepi del Cei o, per dirla tutta, quando erano i cammelli a stare in groppa ai re magi. Più passavano natali, più mio nipote cresceva e perdeva la calma. La sua insofferenza aumentava e a settembre già iniziava ad agitarsi e a smaniare passeggiando nervosamente per tutti i 48 metri quadrati di casa; ottobre e si dava il via alla fase del dubbio metodico sospettando di tutti noi e chiedendoci di confessare da quale parte stessimo, di dirgli la verità e, infine, dubitava di se stesso domandandosi se provasse oppure no il sentimento del Natale (a volte chiuso in bagno davanti lo specchio si pungeva varie parti del corpo con uno spillo e ad ogni puntura chiamava «Natale? Natale? Sei qui? No? Sei qui, allora? No? Qui? Qui? Qui?», da lì a riempirsi di piercing fatti in casa con aghi e spilloni non ci volle molto); con novembre passava le giornate nei grandi supermercati per dissuadere preventivamente quelli che volevano comprare regali per il prossimo Natale, finché i commessi non lo buttava fuori mentre lui gridava «quest’anno carbone, quest’anno carbone per tutti voi bambini cattivi», irridendoli, così diceva lui «li ho irrisi, sono stato davvero irridente», credendo di dare fiato a risate irredentiste; dicembre era crisi nera e a casa non lo si vedeva mai, impegnato com’era a boicottare presepi, incendiare alberi, rompere le palline colorate e scazzottare i babbi natali fuori dei supermercati, fare appostamenti in avvistamento di slitte volanti, rubare le borse dei postini per eliminare la corrispondenza verso il polo nord e provare a decodificare i messaggi cifrati che secondo lui c’erano nascosti, leggendovi strutture e corrispondenze segrete. Il giorno di Natale rientrava distrutto dalla fatica e senza dire nulla, attraversava i nostri sguardi come un fantasma e si chiudeva nell’unica camera da letto di casa, da cui emergeva solo dopo l’epifania. Così noi si dormiva tutti nel divano-letto nella sala da pranzo cucina salotto. Di darsi gli auguri nessuno ne aveva voglia, di regali e panettoni neanche a parlarne. Da mangiare le solite cose, mezze guaste, mezze rubate. Che Natale di merda. Capodanno si festeggiava, certo, e si cercava di saltare di gioia – solo chi ne aveva la forza - sperando che qualcuno tra un salto e l’altro lasciasse il posto sul divano-letto e ognuno immaginando la propria versione del “sarà un anno migliore”. Mia sorella sognava di sposarsi – con un uomo, uno qualunque, l’importante era sposarsi; mia nipote di essere adottata – da una famiglia qualsiasi, era sufficiente che non fosse la nostra: bastava che gli desse da mangiare; mia nonna sperando che tornasse il nonno a prenderla per portarla via, magari al mare – un mare qualsiasi, ma dove anche le vecchie si potessero abbronzare le gambe venose e guardare il nonno nuotare contro le onde e farla franca; io mentre fissavo il cielo fuori dall’oblò uso finestra, immaginavo di essere scelto per andare sulla luna – una luna qualsiasi, con il presidente che mi stringeva la mano e la nonna che sventolava il fazzoletto. Mio nipote non lo so che cosa sognasse, non usciva dalla camera da letto e non lo vedevamo e non gli parlavamo, ma spero solo che sognasse – un sogno qualsiasi – e che fosse in grado di dimenticare tutto quello che credeva fosse da dimenticare: natali, babbinatali, presepi, alberi, palle colorate, allegri motivetti. Un giorno, infine, ce lo ritrovavamo a colazione e basta, senza spiegazioni, sedeva al suo posto. Si ricominciava a stare attorno al tavolo per un buon quarto d’ora, anche se, ormai, sempre più spesso non ci fosse nulla da mangiare. Credo che il rito della colazione, anche se in bianco e in silenzio, tenesse insieme il branco. Noi stavamo lì e basta, e ci bastava starci. Oppure, anche se non ci veniva in mente, era solo la curiosità di vedere se mancava qualcuno all’appello, se qualcuno se ne fosse andato, o ci fosse rimasto secco durante la notte, come i vecchi che leggono i necrologi per vedere se è morto qualcuno che conoscono e se ne trovano uno è forte la soddisfazione di dire «Ecco, lo conoscevo. E dire che stava così bene, era così forte da giovane. Molto più in salute di me, certo, e poi simpatico, eh, proprio simpatico. Una brava persona». Per quelli che restano è più forte la soddisfazione di avere qualcosa da dire e di dirlo al momento giusto, del rammarico per la scomparsa. Anzi del rammarico nemmeno l’ombra, e il nome sul giornale per la scomparsa è il modo per far riapparire ricordi e mettere in funzione il cervello. Per rianimarsi serve che qualcuno crepi. Più ne crepano, più i vecchi ricordano, più si sentono bene; magari c’è pure un funerale dove si deve assolutamente andare, e allora si incontrano gli amici e ci si fa vedere – ancora vivi, cazzo: «poverino, una così brava persona e che uomo vigoroso era, un gran lavoratore, e quelle sono le figlie? E i nipotini? Quattro addirittura! E ti ricordi quando poi, già, già, e tu c’eri? E certo che mi ricordo, funziono ancora bene io». Sono ancora vivo, cazzo. Non che noi speriamo, oggi come allora, che qualcuno della famiglia muoia, ci lasci le penne, crepi, tiri le cuoia e tutte le locuzioni possibili per dire la stessa cosa, nonnonò, nonostante le molte assenze e le continue fughe, è la fame a farci sperare che qualcuno tagli la corda, sgommi via, prenda la porta, ma al contrario dei vecchi che leggendo nei necrologi delle recenti dipartite ricordano, a noi, anche se non ce lo diciamo e mai ce lo siamo detti, credo che le partenze ci fanno immaginare, ipotizzare, sperare, vedere oltre il nostro insoddisfatto appetito quotidiano. Invece che alla morte pensiamo a quando si dice: passare a miglior vita, ma senza aldilà e vite ultraterrene. Preferiamo considerare i nostri sogni del tutto rasoterra, forse perché dormendo sul pavimento da quando abbiamo venduto i letti e il divano è territorio della nonna, c’è più strada da fare verso l’alto e per i sogni è più facile camminare in orizzontale. Ogni nuova sedia libera a colazione ricorda la possibilità di una vita diversa. Ma appunto ricorda possibilità, senza che nessuno di noi ci creda troppo, ricorda una cosa lontana e anche se non è accaduta mai continua a farci ricordare qualcosa, qualcosa che ruminiamo e ruminiamo come quelle cose che fai senza vederle e senza saperne nulla, come le mucche – voi direte inconscio, io dico che le mucche l’inconscio non ce l’hanno perché non vanno dagli psicanalisti, e quindi sarà dormire sulle zampe, difficoltà di digestione, aria nello stomaco che ti spinge a stare zitto e fare solo mmmmmmm e al massimo muuuuuu; voi direte pessimismo, ma io, da legionario, direi sabbia e turni di guardia – quelle che capitano quando sei girato da un’altra parte, sono ricordi che ci prendono alle spalle. Se dovessimo rendere dichiarazione pubblica e venissimo chiamati ad esprimere la nostra opinione di fronte un consesso civile durante un grande convegno su “Il sentimento della malinconia per la patria perduta o ritrovata”, allora io, elegante e leccato come il burro sul pane scaldato, come portavoce della famiglia salirei sul palco infiocchettato nel mezzo di un parco in una tiepida giornata di primavera e direi ai luminari, agli uomini con i baffi e il cappello, alle signore con gli ombrellini e ai bambini dai grandi lecca lecca da farci lo snowboard: «Gentile pubblico, gentili signore, amabili giovinetti. Dopo una lunga riflessione ed esperienza diretta sul campo per quanto riguarda la presenza e l’assenza, e la lontananza, e il sentimento per la patria, la considerazione che mi sento di fare, dicevo, in quanto rappresentante della famiglia è che – per inciso, senza intercedere per i trafugatori di cadaveri – siamo a favore della fuga dei corpi, soprattutto dei corpi degli altri perché ci garantisce la fuga dai nostri cervelli». Ma questo è quello che direi io, che ora a volte ci penso, ma io come uno qualunque che ci si mettesse a pensare, ma io a malapena posso parlare per me, figurarsi per tutti gli altri, per l’intera legione di quattro sedie e niente colazione.

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