Sono ormai sei anni da quando mio nipote si è rifugiato sugli altipiani dell’Afghanistan. Fa parte di una milizia paraterroristica contro il natale e le altre ricorrenze che abbiano nella prosodia ricorrente facili assonanze e che, in ogni caso, abbiano a che fare con luci intermittenti, fuochi d’artificio e riti ossequianti da far ondeggiare il capo al ritmo delle litanie, con o senza la musica techno di sottofondo. Lui è il fondatore, animatore, portavoce e unico membro attivo. Per entrarvi, oltre ai meriti raccolti sul campo e nonostante fosse il solo componente del gruppo, si è sottoposto ad un esame di retorica classica e argomentazione oratoria, così da riconoscere subito l’avvicinarsi dell’eloquio melenso e ciclico del nemico festaiolo.
Un giorno che era di questo periodo, di inizio dicembre, quando tutti iniziano a tirare fuori gli addobbi per fare l’albero di natale, appena compiuta la maggiore età, mio nipote partì. Prima di uscire si chiuse in bagno e si rapò a zero la testa. Io, appostato dietro la porta, sentivo il rasoio che falciava i capelli irsuti del nipote, mentre questo diceva: «Stai festeggiando con me? Vuoi farmi gli auguri? Provaci! Provaci se ne hai coraggio». Uscì sorridendo e mi trovò lì dietro mentre facevo finta di farmela addosso - «Bel taglio, molto utile contro i pidocchi» riuscii a dire, mostrando presenza di spirito, «Niente più Natali» ribatté lui. In camera prese da sotto il letto l’attrezzatura che usava per andare al campeggio sul lago a pescare le trote con l’esplosivo fatto nella sua cameretta, proprio come gli aveva insegnato il nonno quando tornato da scuola dove frequentava la seconda elementare, raccontò che i compagni più grandi, quelli della quinta, lo avevano picchiato. Chiudendo la porta disse mormorando tra i denti che «vado a fare ciò che dev’esser fattooooo, vado a fare ciò che dev’esser fattooooo». Per un mese non ne avemmo più notizie: a colazione il posto vuoto, tutto qui. Finché non sentimmo in tv che un giovane, di nazionalità ancora incerta, era stato fermato al confine tra Svezia e Finlandia, mentre con un camion pieno di liquido infiammabile aveva tentato di trovare un mezzo che gli consentisse di arrivare al Polo Nord. Si dice che una volta arrivato lì, si sarebbe voluto lanciare come un kamikaze contro un agglomerato di igloo che, secondo delle mappe e degli appunti che gli furono trovati addosso, doveva trattarsi della residenza di un uomo che si spacciava per Babbo Natale. «Dare fuoco al ghiaccio! Yeah, rock ‘n roll, molto rock ‘n roll», disse la giornalista del tg alla moda. Dopo qualche giorno di penitenziario, mio nipote riuscì a sfuggire alla polizia svedese. Fu facile per lui indurre tutti i secondini al suicidio, confermando le statistiche, ripetendogli ogni giorno che da quell’anno in poi non sarebbe tornato il sole, l’Ikea avrebbe chiuso, la Nokia sarebbe stata comprata dalla Telecom Italia, Nobel era negro e, in fondo, il socialismo nord europeo era una truffa messa in piedi solo per non fargli provare l’ebbrezza di uno stato in mano ai democratici cristiani. Sono quasi sicuro che la strage di renne che seguì nei giorni successivi la fuga dalle prigioni svedesi, possa essere attribuita alla furia antinatalizia e all’appetito di aria familiare di mio nipote. Di certo avrà pensato che se avesse ucciso tutte le renne, allora il nemico rosso sarebbe rimasto a piedi, impossibilitato nel portare a termine la sua missione natalizia. Il fatto che poi le renne diventassero pranzo, cena e colazione di mio nipote era del tutto incidentale. A pensarlo nei boschi con le renne arrostite, lo invidiavo. Ché se ce ne fossero qui di renne, anche io prenderei la vecchia ricetta per far saltare in aria i bambini della quinta tramandata dal nonno e ne farei cotolette. Ero a disagio pensando agli orizzonti gastronomici che il mio nipote sovversivo andava esplorando, mentre io ripassavo sempre dalle stesse parti, giorno dopo giorno con lo stomaco che si raggrinziva e il gusto che faceva harakiri. E hai voglia di mettersi con mia sorella a leccare la vernice dei mobili, a stare per ore attaccati con i denti all’armadio finto ciliegio, per provare a sballarci e creare l’effetto elettroshock sul palato: «L’abbiamo perso? L’abbiamo perso?». Con le gengive blu e verde, i pochi mobili di casa ormai scrostati e il compensato rosicchiato, pensavo che la rivoluzione dovesse passare anche dallo stomaco: non si è mai visto uno tenuto in piedi con pasti fissi succulenti, davvero deciso a cambiare le portate in tavola, a far saltare il banco degli antipasti e a dare fuoco alle cucine. Riempitegli la pancia, il resto seguirà, avranno detto i Cesari per fermare le rivolte. E tutti a fare polpette della patria. Ah, le polpette patriottiche. Ah, quegli spiriti ribelli messi a terra da diabete e colesterolo. Elmo scolapasta, forchetta in resta e via al galoppo verso il ristorante. E chi s’è visto, s’è visto. Mentre io diventavo patriota e moralista, ma solo per questioni di anemia indotta dalla fame, i mesi passavano e le uniche notizie che ricevemmo riguardo il nipote provenivano dai servizi segreti vaticanensi, che ci interrogarono, dandoci così conferma che il tentato babbonatalicidio fosse opera del nostro caro congiunto. Le spie con la tiara da combattimento sul tesserino identificativo controllavano i nostri telefoni, le email e la posta ordinaria, per verificare se mio nipote si fosse messo in contatto con noi prima o subito dopo «l’insano gesto» e per localizzarne la posizione caso mai lo avesse fatto. Ma noi, figurarsi, non avevamo computer, l’unica posta che arrivava erano le bollette e per quanto riguarda i telefoni cellulari avevamo quelli che ero riuscito a rubare davanti le scuole elementari ai bambini ricchi, ma senza alcun credito e senza essere riuscito a rivenderli. A vederci camminare per strada discutendo animatamente con il portatile attaccato all’orecchio avresti detto che le nostre telefonate erano ciò di più importante al mondo: «PRONTO? PRONTO? C’è nessuno dall’altra parte?». Ma, lo ripeto, mio nipote era un duro e proveniva, inoltre, da una genìa di teste dure. Se aveva deciso di farla finita con il natale, allora potete giurarci che non si sarebbe fermato tanto facilmente. Allo stesso modo non si sarebbe lasciato andare a facili sentimentalismi, commettendo così un qualsiasi passo falso per nostalgia: lui non era come quelli che non riescono a stare lontani dai parenti e dai loro aliti rassicuranti, buoi e asinelli compresi. Ciò che gli stava a cuore era la sua missione, nient’altro che quello: farla finita con il natale; e questo gli bastava e lo teneva al caldo. Proprio come suo nonno, quando pensò bene che le cose dovessero cambiare e si mise in viaggio per andare in cerca del luogo dove gli avevano raccontato si trovasse la pietra da spostare per cambiare l’equilibrio del pianeta e farne invertire la rotazione, così da cambiare il mondo. Nessuno lo rivide più, ma quando cambia il vento, in famiglia ci guardiamo e, anche senza dire nulla, sono sicuro che pensiamo tutti al nonno che prova a spostare le montagne.
Il rapporto che intrattenemmo con i servizi segreti del Vaticano non fu facile. Durante i lunghi interrogatori, subito dopo il coming out di mio nipote, «del vostro congiunto», gli agenti non si fidavano delle nostre affermazioni, chiedendoci in continuazione confessione e pentimento, e naturalmente pentimento e confessione.
Appena portati nella loro sezione locale, «potreste seguirci in abbazia?», in una stanza scura e puzzolente, ci fecero aspettare tre ore da soli. Ci addormentammo tutti. Io sognai di essere un pinguino. L’unico pinguino al mondo capace di volare e con tutti gli altri pinguini che applaudivano dalla banchina. Atterrai di botto quando irruppero nella stanza gli agenti e mi prelevarono per gli interrogatori. Ancora una stanza piccola, scura e puzzolente. Io da solo, un tavolo e una sedia da un parte, un crocifisso di granito dall’altra che incombeva su tutta la stanza ricoprendone una parete e che quando ti eri seduto cadeva a strapiombo sulla tua testa impedendoti di guardargli la faccia. Di fronte un agente con gli occhiali scuri. Le prime tre ore di interrogatorio, le passai a fare finta di avere amnesie temporanee: «Chi? Io? Io chi? Cosa? Mio nipote chi? La terra? Il pianeta terra? Dove? Perché?», e mi commuovevo piangendo abbondanti lacrime e ripetendo «Essere o non essere? Chi sono io? Oh, Amleto» rivolgendomi all’agente del Vaticano che si faceva chiamare Pungolo e a cui chiesi «E Biancaneve dov’è?», immaginando che con lui ci fossero tutta una schiera di agenti con il nome che finiva in “olo” e ricevendo di rimando una severa occhiata al limite della scomunica istantanea (a quei tempi non potevo immaginare che nel loro codice segreto Biancaneve era addirittura sua santità il Papa). Ma i vaticanensi erano ossi duri e non ne volevano sapere di lasciarmi andare e tra un pentimento e una confessione, insistevano: «Ci dica cosa sa a proposito del Natale e sarà tutto finito. Lei è un complice di suo nipote? Le ha scritto comunicandole le sue volontà? Ce lo dica, si penta, si confessi». Così cominciai a dire che «io essele cinese» e «il Natale? Io non festeggiale il Natale. Mio nipote? Io non avele nipoti, tutti nipoti poltati via da tifone. Io essele povelo immiglato cinese, io niente sapele. Tu conosci Bluce Lee?». Ma quelli non mollavano così ripiegai in patria e smaltita la sbornia euforica e l’adrenalina sprigionata dalla fifa, non andavo oltre un «Nuggiu sapimu, nuggiu sacciu io» e mi veniva l’accento siciliano. Come una mosca impazzita sbattevo contro tutti i luoghi comuni visti nei telefilm, finché nel vuoto dell’esaurimento tourettico, dal bianco luminoso, mi venne in soccorso il mio professore di rotolamenti&ruzzoloni dalle colline che ci catechizzava ricordando Eraclito – «Tutto scorre, figliuoli, tutto scorre» e giù a spingerci di sotto, a rotta di collo e senza paura - e alla fine della giornata, ai piedi della collina, quando risalire in cima sembrava troppo duro, sospirava ricordando che doveva ritornare a casa, dove ad aspettarlo c’era sua moglie, che non capiva le ragioni rivoluzionarie e poetiche del passare la vita a rotolare, e lui masticava tra i denti le ragioni di Socrate. Così alzandomi in piedi dissi in tono solenne e guardando fisso gli occhi del faccione di Topolino stampato sulla mia cerata attaccata al muro di fronte (l’unico ricordo dei miei genitori da cui non mi separavo mai): «È possibile la legittima difesa» «Come?» «Sì, contro il Natale. Legittima difesa contro il Natale, che ha provato a colpirmi armato del sentimento del Natale. Lei conoscerà il sentimento, vero? Quello del Natale, dico. Dovremmo avere diritto alla difesa dal Natale, sa, ispettore?» «Non sono ispettore» «Va bene, commissario» «Non sono commissario, ma lei cerca di cambiare discorso» «Crede di meritare di più?» «La smetta!» «Va bene, capo» «Ritorniamo al Natale» «Sì, dovremmo avere diritto alla difesa dal Natale» «Lei allora è complice di suo nipote?» «Siamo tutti vittime» «Sappiamo che ruba il sugo al supermercato?» «Voglio vedere il mio avvocato» «E come si chiamerebbe il tuo avvocato?» «Allen. Allen Woody».
Non facevano meglio gli altri della famiglia. La nonna emetteva un solo rumore, un grugnito per dire “no” oppure “sì”, tanto che Pungolo e Acidulo, l’altro agente che ci stava “lavorando” esperto in comunicazione bovina, cercarono di comunicare con lo stesso linguaggio e per una buona ora andarono avanti a forza di “Mmmmrrrrgggg, Mmmmmmrrrggg mmmmrrrggg”. Mia sorella, fu quella che la prese meglio, dondolava le gambe e diceva «Sciocchino di uno svizzerino che cosa dici mai? Mi posso sedere sulle tue gambe? E tu ce l’hai la lunga alabarda? Oppure hai il coltellino?». Ci lasciarono andare purificandoci nell’incenso e con la promessa di avvertirli se il povero nipote si fosse fatto sentire. Io dissi Yawooooooooll herr komandant, mentre mia sorella sventolava il fazzoletto e lanciava baci a quei bei maschioni dal portamento alpino.
Così, nei mesi seguenti presero a seguirci ovunque, senza sosta. Ormai avevamo imparato a riconoscerli per l’odore d’incenso di cui erano sempre impregnati, nonostante ogni mattina si sottoponessero, oltre alle solite 33 avemarie da guerra preventiva ai peccati, a deodorizzazione con una crema urticante al peperoncino, come ci spiegò uno di loro che aveva bevuto troppo vinsanto e che tra i fumi dell’alcol ci sbarrò la strada per implorarci di consegnargli il Graal. Ma nonostante il riconoscimento olfattivo che ormai ci permetteva di salutarli con un «Buongiorno agente! Si sorveglia, eh, si sorveglia? Buon lavoro!», anche se erano travestiti da turisti svizzeri che così potevano portare con indifferenza l’elmo, la corazza e la lancia - come apprendemmo essere consigliato nel manuale della spia che tutti gli agenti, come ulteriore obbligo quotidiano, dovevano recitare prima di fare colazione - allora nonostante li riconoscessimo, attenendosi con rigidità al codice, loro ci offrivano prontamente una tavoletta di cioccolato e fingevano di chiedere informazioni con un «Habemus papam?». Noi pazientemente rispondevamo «Quo vadis?», e quelli di rimando «Emmenthal, Emmenthal» e noi «Dirittus semper dirittus et a fortiori a destras» e loro spesso rilanciavano con un «Olè! Olè!», ingannati dalle troppe esse con cui condivamo il nostro latino improvvisato. Poi scappavano via tenendo al guinzaglio una mucca addestrata ad abbaiare come un cane al ritmo del campanaccio. Questa situazione andò avanti a lungo e, ancora oggi, qualche volta ci capita di incontrare i turisti svizzeri con bovini da passeggio al seguito che brucano nelle aiuole spartitraffico. La loro fedeltà al codice è commuovente, o forse sono proprio così e il codice è solo un registro del loro essere agenti segreti e amanti delle mucche.
Un giorno che era di questo periodo, di inizio dicembre, quando tutti iniziano a tirare fuori gli addobbi per fare l’albero di natale, appena compiuta la maggiore età, mio nipote partì. Prima di uscire si chiuse in bagno e si rapò a zero la testa. Io, appostato dietro la porta, sentivo il rasoio che falciava i capelli irsuti del nipote, mentre questo diceva: «Stai festeggiando con me? Vuoi farmi gli auguri? Provaci! Provaci se ne hai coraggio». Uscì sorridendo e mi trovò lì dietro mentre facevo finta di farmela addosso - «Bel taglio, molto utile contro i pidocchi» riuscii a dire, mostrando presenza di spirito, «Niente più Natali» ribatté lui. In camera prese da sotto il letto l’attrezzatura che usava per andare al campeggio sul lago a pescare le trote con l’esplosivo fatto nella sua cameretta, proprio come gli aveva insegnato il nonno quando tornato da scuola dove frequentava la seconda elementare, raccontò che i compagni più grandi, quelli della quinta, lo avevano picchiato. Chiudendo la porta disse mormorando tra i denti che «vado a fare ciò che dev’esser fattooooo, vado a fare ciò che dev’esser fattooooo». Per un mese non ne avemmo più notizie: a colazione il posto vuoto, tutto qui. Finché non sentimmo in tv che un giovane, di nazionalità ancora incerta, era stato fermato al confine tra Svezia e Finlandia, mentre con un camion pieno di liquido infiammabile aveva tentato di trovare un mezzo che gli consentisse di arrivare al Polo Nord. Si dice che una volta arrivato lì, si sarebbe voluto lanciare come un kamikaze contro un agglomerato di igloo che, secondo delle mappe e degli appunti che gli furono trovati addosso, doveva trattarsi della residenza di un uomo che si spacciava per Babbo Natale. «Dare fuoco al ghiaccio! Yeah, rock ‘n roll, molto rock ‘n roll», disse la giornalista del tg alla moda. Dopo qualche giorno di penitenziario, mio nipote riuscì a sfuggire alla polizia svedese. Fu facile per lui indurre tutti i secondini al suicidio, confermando le statistiche, ripetendogli ogni giorno che da quell’anno in poi non sarebbe tornato il sole, l’Ikea avrebbe chiuso, la Nokia sarebbe stata comprata dalla Telecom Italia, Nobel era negro e, in fondo, il socialismo nord europeo era una truffa messa in piedi solo per non fargli provare l’ebbrezza di uno stato in mano ai democratici cristiani. Sono quasi sicuro che la strage di renne che seguì nei giorni successivi la fuga dalle prigioni svedesi, possa essere attribuita alla furia antinatalizia e all’appetito di aria familiare di mio nipote. Di certo avrà pensato che se avesse ucciso tutte le renne, allora il nemico rosso sarebbe rimasto a piedi, impossibilitato nel portare a termine la sua missione natalizia. Il fatto che poi le renne diventassero pranzo, cena e colazione di mio nipote era del tutto incidentale. A pensarlo nei boschi con le renne arrostite, lo invidiavo. Ché se ce ne fossero qui di renne, anche io prenderei la vecchia ricetta per far saltare in aria i bambini della quinta tramandata dal nonno e ne farei cotolette. Ero a disagio pensando agli orizzonti gastronomici che il mio nipote sovversivo andava esplorando, mentre io ripassavo sempre dalle stesse parti, giorno dopo giorno con lo stomaco che si raggrinziva e il gusto che faceva harakiri. E hai voglia di mettersi con mia sorella a leccare la vernice dei mobili, a stare per ore attaccati con i denti all’armadio finto ciliegio, per provare a sballarci e creare l’effetto elettroshock sul palato: «L’abbiamo perso? L’abbiamo perso?». Con le gengive blu e verde, i pochi mobili di casa ormai scrostati e il compensato rosicchiato, pensavo che la rivoluzione dovesse passare anche dallo stomaco: non si è mai visto uno tenuto in piedi con pasti fissi succulenti, davvero deciso a cambiare le portate in tavola, a far saltare il banco degli antipasti e a dare fuoco alle cucine. Riempitegli la pancia, il resto seguirà, avranno detto i Cesari per fermare le rivolte. E tutti a fare polpette della patria. Ah, le polpette patriottiche. Ah, quegli spiriti ribelli messi a terra da diabete e colesterolo. Elmo scolapasta, forchetta in resta e via al galoppo verso il ristorante. E chi s’è visto, s’è visto. Mentre io diventavo patriota e moralista, ma solo per questioni di anemia indotta dalla fame, i mesi passavano e le uniche notizie che ricevemmo riguardo il nipote provenivano dai servizi segreti vaticanensi, che ci interrogarono, dandoci così conferma che il tentato babbonatalicidio fosse opera del nostro caro congiunto. Le spie con la tiara da combattimento sul tesserino identificativo controllavano i nostri telefoni, le email e la posta ordinaria, per verificare se mio nipote si fosse messo in contatto con noi prima o subito dopo «l’insano gesto» e per localizzarne la posizione caso mai lo avesse fatto. Ma noi, figurarsi, non avevamo computer, l’unica posta che arrivava erano le bollette e per quanto riguarda i telefoni cellulari avevamo quelli che ero riuscito a rubare davanti le scuole elementari ai bambini ricchi, ma senza alcun credito e senza essere riuscito a rivenderli. A vederci camminare per strada discutendo animatamente con il portatile attaccato all’orecchio avresti detto che le nostre telefonate erano ciò di più importante al mondo: «PRONTO? PRONTO? C’è nessuno dall’altra parte?». Ma, lo ripeto, mio nipote era un duro e proveniva, inoltre, da una genìa di teste dure. Se aveva deciso di farla finita con il natale, allora potete giurarci che non si sarebbe fermato tanto facilmente. Allo stesso modo non si sarebbe lasciato andare a facili sentimentalismi, commettendo così un qualsiasi passo falso per nostalgia: lui non era come quelli che non riescono a stare lontani dai parenti e dai loro aliti rassicuranti, buoi e asinelli compresi. Ciò che gli stava a cuore era la sua missione, nient’altro che quello: farla finita con il natale; e questo gli bastava e lo teneva al caldo. Proprio come suo nonno, quando pensò bene che le cose dovessero cambiare e si mise in viaggio per andare in cerca del luogo dove gli avevano raccontato si trovasse la pietra da spostare per cambiare l’equilibrio del pianeta e farne invertire la rotazione, così da cambiare il mondo. Nessuno lo rivide più, ma quando cambia il vento, in famiglia ci guardiamo e, anche senza dire nulla, sono sicuro che pensiamo tutti al nonno che prova a spostare le montagne.
Il rapporto che intrattenemmo con i servizi segreti del Vaticano non fu facile. Durante i lunghi interrogatori, subito dopo il coming out di mio nipote, «del vostro congiunto», gli agenti non si fidavano delle nostre affermazioni, chiedendoci in continuazione confessione e pentimento, e naturalmente pentimento e confessione.
Appena portati nella loro sezione locale, «potreste seguirci in abbazia?», in una stanza scura e puzzolente, ci fecero aspettare tre ore da soli. Ci addormentammo tutti. Io sognai di essere un pinguino. L’unico pinguino al mondo capace di volare e con tutti gli altri pinguini che applaudivano dalla banchina. Atterrai di botto quando irruppero nella stanza gli agenti e mi prelevarono per gli interrogatori. Ancora una stanza piccola, scura e puzzolente. Io da solo, un tavolo e una sedia da un parte, un crocifisso di granito dall’altra che incombeva su tutta la stanza ricoprendone una parete e che quando ti eri seduto cadeva a strapiombo sulla tua testa impedendoti di guardargli la faccia. Di fronte un agente con gli occhiali scuri. Le prime tre ore di interrogatorio, le passai a fare finta di avere amnesie temporanee: «Chi? Io? Io chi? Cosa? Mio nipote chi? La terra? Il pianeta terra? Dove? Perché?», e mi commuovevo piangendo abbondanti lacrime e ripetendo «Essere o non essere? Chi sono io? Oh, Amleto» rivolgendomi all’agente del Vaticano che si faceva chiamare Pungolo e a cui chiesi «E Biancaneve dov’è?», immaginando che con lui ci fossero tutta una schiera di agenti con il nome che finiva in “olo” e ricevendo di rimando una severa occhiata al limite della scomunica istantanea (a quei tempi non potevo immaginare che nel loro codice segreto Biancaneve era addirittura sua santità il Papa). Ma i vaticanensi erano ossi duri e non ne volevano sapere di lasciarmi andare e tra un pentimento e una confessione, insistevano: «Ci dica cosa sa a proposito del Natale e sarà tutto finito. Lei è un complice di suo nipote? Le ha scritto comunicandole le sue volontà? Ce lo dica, si penta, si confessi». Così cominciai a dire che «io essele cinese» e «il Natale? Io non festeggiale il Natale. Mio nipote? Io non avele nipoti, tutti nipoti poltati via da tifone. Io essele povelo immiglato cinese, io niente sapele. Tu conosci Bluce Lee?». Ma quelli non mollavano così ripiegai in patria e smaltita la sbornia euforica e l’adrenalina sprigionata dalla fifa, non andavo oltre un «Nuggiu sapimu, nuggiu sacciu io» e mi veniva l’accento siciliano. Come una mosca impazzita sbattevo contro tutti i luoghi comuni visti nei telefilm, finché nel vuoto dell’esaurimento tourettico, dal bianco luminoso, mi venne in soccorso il mio professore di rotolamenti&ruzzoloni dalle colline che ci catechizzava ricordando Eraclito – «Tutto scorre, figliuoli, tutto scorre» e giù a spingerci di sotto, a rotta di collo e senza paura - e alla fine della giornata, ai piedi della collina, quando risalire in cima sembrava troppo duro, sospirava ricordando che doveva ritornare a casa, dove ad aspettarlo c’era sua moglie, che non capiva le ragioni rivoluzionarie e poetiche del passare la vita a rotolare, e lui masticava tra i denti le ragioni di Socrate. Così alzandomi in piedi dissi in tono solenne e guardando fisso gli occhi del faccione di Topolino stampato sulla mia cerata attaccata al muro di fronte (l’unico ricordo dei miei genitori da cui non mi separavo mai): «È possibile la legittima difesa» «Come?» «Sì, contro il Natale. Legittima difesa contro il Natale, che ha provato a colpirmi armato del sentimento del Natale. Lei conoscerà il sentimento, vero? Quello del Natale, dico. Dovremmo avere diritto alla difesa dal Natale, sa, ispettore?» «Non sono ispettore» «Va bene, commissario» «Non sono commissario, ma lei cerca di cambiare discorso» «Crede di meritare di più?» «La smetta!» «Va bene, capo» «Ritorniamo al Natale» «Sì, dovremmo avere diritto alla difesa dal Natale» «Lei allora è complice di suo nipote?» «Siamo tutti vittime» «Sappiamo che ruba il sugo al supermercato?» «Voglio vedere il mio avvocato» «E come si chiamerebbe il tuo avvocato?» «Allen. Allen Woody».
Non facevano meglio gli altri della famiglia. La nonna emetteva un solo rumore, un grugnito per dire “no” oppure “sì”, tanto che Pungolo e Acidulo, l’altro agente che ci stava “lavorando” esperto in comunicazione bovina, cercarono di comunicare con lo stesso linguaggio e per una buona ora andarono avanti a forza di “Mmmmrrrrgggg, Mmmmmmrrrggg mmmmrrrggg”. Mia sorella, fu quella che la prese meglio, dondolava le gambe e diceva «Sciocchino di uno svizzerino che cosa dici mai? Mi posso sedere sulle tue gambe? E tu ce l’hai la lunga alabarda? Oppure hai il coltellino?». Ci lasciarono andare purificandoci nell’incenso e con la promessa di avvertirli se il povero nipote si fosse fatto sentire. Io dissi Yawooooooooll herr komandant, mentre mia sorella sventolava il fazzoletto e lanciava baci a quei bei maschioni dal portamento alpino.
Così, nei mesi seguenti presero a seguirci ovunque, senza sosta. Ormai avevamo imparato a riconoscerli per l’odore d’incenso di cui erano sempre impregnati, nonostante ogni mattina si sottoponessero, oltre alle solite 33 avemarie da guerra preventiva ai peccati, a deodorizzazione con una crema urticante al peperoncino, come ci spiegò uno di loro che aveva bevuto troppo vinsanto e che tra i fumi dell’alcol ci sbarrò la strada per implorarci di consegnargli il Graal. Ma nonostante il riconoscimento olfattivo che ormai ci permetteva di salutarli con un «Buongiorno agente! Si sorveglia, eh, si sorveglia? Buon lavoro!», anche se erano travestiti da turisti svizzeri che così potevano portare con indifferenza l’elmo, la corazza e la lancia - come apprendemmo essere consigliato nel manuale della spia che tutti gli agenti, come ulteriore obbligo quotidiano, dovevano recitare prima di fare colazione - allora nonostante li riconoscessimo, attenendosi con rigidità al codice, loro ci offrivano prontamente una tavoletta di cioccolato e fingevano di chiedere informazioni con un «Habemus papam?». Noi pazientemente rispondevamo «Quo vadis?», e quelli di rimando «Emmenthal, Emmenthal» e noi «Dirittus semper dirittus et a fortiori a destras» e loro spesso rilanciavano con un «Olè! Olè!», ingannati dalle troppe esse con cui condivamo il nostro latino improvvisato. Poi scappavano via tenendo al guinzaglio una mucca addestrata ad abbaiare come un cane al ritmo del campanaccio. Questa situazione andò avanti a lungo e, ancora oggi, qualche volta ci capita di incontrare i turisti svizzeri con bovini da passeggio al seguito che brucano nelle aiuole spartitraffico. La loro fedeltà al codice è commuovente, o forse sono proprio così e il codice è solo un registro del loro essere agenti segreti e amanti delle mucche.
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