domenica 20 luglio 2008

4. Apocalisse


Un giorno si presentò a casa uno di questi agenti in visita ufficiale. Figurarsi se gli avremmo fatto mettere piede in casa – sono anni che inganniamo creditori di tutti i tipi camuffando le voci parlando al telefono e al citofono quando vengono a cercarci a domicilio e allestendo spettacoli di funerali e catastrofi casalinghe: le famose cause di forza maggiore -, ma al citofono disse che doveva consegnare l’elenco telefonico dell’anno nuovo e, nonostante fosse d’agosto, gli aprimmo senza pensarci su, vittime di anni di condizionamento operante e continuous marketing. Con la porta spalancata, l’agente si presentò sull’uscio urlando e sbattendo i tacchi degli stivali bianchi, come «AGENTE SPECIALE APOCALISSE, NE RESTERÀ SOLO UNO. PER IL PAPA, CON IL PAPA, DENTRO IL PAPA», e in risposta alla nonna che gli tendeva le pagine gialle, lui mostrò il tesserino giallo vaticano e si fiondò in casa portando con sé una scatola di legno, superando con agilità la nonna frastornata da tanto baccano che restava ancora con l’elenco a mezz’aria.
Accomodatosi che fu, si posizionò nella poltrona che aveva la luce alle spalle. Sistemò l’aggeggio di legno sul tavolo di fronte a lui e spiegò che ci avrebbe sottoposto ad un esame di integrità morale per cercare di capire se ci fosse, nel comportamento di mio nipote, una ragione genetica ed ereditaria, o semplicemente di natura ambientale-comportamentale e, dunque, comprendere la fenomenologia del caso e prevenire in futuro altri simili imbarazzi «per lo spirito che tutti avvolge e perdonaaaaaaaaa». Il marchingegno funzionava così: l’agente faceva delle domande del tipo «se trovi un cilicio per strada lo restituisci al legittimo proprietario oppure corri ad indossarlo sopra il tuo per aumentare la gioia personale e la speranza nella grazia attraverso la punizione corporale?»; se rispondevi in modo inappropriato dalla scatola spuntava fuori un uccellino che si metteva a strillare come un matto, finché non veniva zittito dall’agente, che, inutile dirlo, ci metteva sempre troppo tempo. Dopo le prime volte, in cui lo stridio dell’uccellino cogliendoci di sorpresa ci straziava i timpani, cominciammo a mentire. Così ciarlavamo tutti della bellezza del dolore, della colpa, del peccato originale. La nonna si lanciò in una elucubrazione sulla reincarnazione in puri spiriti, ovvero nel vero corpo che ci attende al di là del grande balzo dove saremo tutti felici e i reumatismi scompariranno. Mentre io mi stropicciavo il naso con il ramarro che da mesi viveva nelle pantofole del nonno esclamando: «il puzzo e il sozzume di questo immondo animale, mi ricorderà il mio stato di bestia di fronte alla luce, oh come puzza, oh come sono felice». Ma non bastava, l’uccellino veniva fuori e urlava, urlava, urlava per la disperazione collettiva. Urlava perché era tarato sulla materia incorporea delle parole e non sul corpo materiale. In breve: avevi voglia a raccontargli balle, ma quello non se le beveva. Sapemmo attraverso un cugino di un amico dell’ex insegnante di dizione di mia sorella - che dovette interrompere le lezioni perché rimase incinta non si sa di chi, ma ho sempre sospettato che gli approfondimenti sulle palatali e le gutturali c’entrassero qualcosa – che conosceva un tizio che aveva il suo ex compagno di classe che si era spretato, in seguito alla perdita di sensi dovuta alla visione di una quindicenne in costume da bagno, che i cucù sensibili alla materia etica degli uomini erano stati vietati nelle parrocchie perché disturbavano le funzioni quotidiane. La nota ufficiale parlava del fatto che in chiesa arrivavano tanti peccatori in cerca di redenzione e che in confessionale ne raccontavano di tutti i colori e ne pensavano ancora di peggio, mentre veniva officiata la messa. La verità era che i cucù etici si settavano sui canoni ricorrenti dei sermoni e c’era il rischio che non solo la natura morale e pura dei preti venisse messa in dubbio, ma le parole stesse delle scritture. Così non ci volle molto che furono levati tutti e, con l’aiuto della tecnologia e dell’innovazione dei tempi, sostituiti con dei più precisi, astratti e imparziali orologi al quarzo che segnavano contemporaneamente le ore di tutte le più grandi città del mondo, a segnalare il brillare del verbo su tutto il panorama terracqueo.
L’agente Apocalisse che «recava seco» il cucù, (lui diceva sempre frasi del genere: «il fardello che reco meco», «il compito assegnatommi» e ogni volta che diceva “reco” e “meco”, io pensavo tarà-tattà) in seguito, ci spiegò che ciò che cercava era una funzione mista di moralismo comportamentistico causale da applicare alle variabili ipotetiche raccolte induttivamente attraverso le possibilità ontologiche della blasfemia antinatalizia. Il tutto al fine di disegnare una funzione per interpretare e prevenire le mosse future di mio nipote. E, infine, catturarlo. Perché doveva essere catturato e doveva essere curato. Doveva essere sottoposto alla cura. E Apocalisse ripeteva «la cura è la migliore cura, la cura è la migliore cura, la cura è la migliore cura», sbracciandosi con fare evocativo ed osannante ed emettendo bagliori dalla giacca – tanto che mia sorella, che amava la musica techno, iniziò a ballare urlando «c’ha le strobo, c’ha le strobo». A me pareva che le sue parole andassero a ritmo di mia sorella o che mia sorella avesse una spiccata capacità di interpretazione figurativa della prosodia dell’agente e che, insomma, la techno si addicesse proprio bene al tono da sermone. La nonna, invece, che fino ad allora raccontava alle amiche che il nipote era andato a studiare all’estero per diventare ingegnere e a me chiedeva se mancasse molto alla laurea, a sentirle queste parole, si scagliò contro l’emissario vaticanense brandendo tesi sull’imperscrutabilità dell’animo umano e sul diritto alla libertà di credo e, in modo più convincente agli occhi dell’agente, il palo della scopa accompagnato da un intercalare deciso: «Chi cazzu mai hannu fattu chilli cu u drappo e i pisctolotti ‘ncoppa all’altari? Mai nu cazzu! Unnu, unnu iè statu mai curatu da chilli cazzi, sulu sordi vonno, sordi e spanzarsi. E ti cuntano minchiate pi ti fa sta tranguillo. Maliditti, maliditti, maliditti. Ca Peppino ci cuntò tutto e chiri aru culu c’hu u gliettarunu ca parrarono curi carabbineri»; che può essere riassunto in un: «La curia non ha mai curato nessuno e io non mi fido mica tanto, eh». La nonna mentre imprecava, sputava per terra e pestava i piedi, menando fendenti con la scopa contro Apocalisse che schivava quel che poteva e il resto cercava di pararlo con le braccia. Così cominciò anche lui ad agitarsi come mia sorella. Ma mentre lei si entusiasmava ancora di più gridando «evvai, evvaiiii», Apocalisse dimenandosi urlava: «Ahia, ahi, cazz, ahia». Più lui soffriva, più la nonna incalzava con secchi stridi: «Ehià, ya, yaaaaa!». Fino al colpo di grazia che portato dal basso verso l’alto tagliò in due l’aria congelando il tempo con un rapidissimo swiiiiinnnn e colse l’agente sui genitali, facendogli urlare un definitivo: «CAZZZZOOOOOOAAAAAIIIIIIHHAAAAAA!!!!!». Mentre Apocalisse crollava in ginocchio rannicchiato intorno al suo pube, la nonna lo finiva con un secondo e altrettanto fulminante swiiiiinnnn sul viso stendendolo al suolo privo di sensi. Mentre mia sorella estasiata ribatteva urlando sempre più forte: «SÌ, COSÌ!!! TROPPO FIGO SEI, APOCALÌ!!!». La nonna, meglio di un maestro di bushido nel suo dojo, rinfoderava il palo della scopa e si ritirava in silenzio in cucina. Io ogni volta che vedo Guerre Stellare e vedo il vecchio maestro Yoda, penso alla nonna.
Dopo essere strisciato fuori invocando San Daniele Martire e ringraziando, con fare guardingo, per il dolore e le belle parole «e mi raccomando mi saluti la sua dolce nonnina», mentre mia nipote gli scriveva con il rossetto viola sul viso il suo numero e, improvvisamente posseduta, francicando in una lingua sconosciuta, ma credo assimilabile al più stretto dialetto romanesco, «me so ‘nnamorata, me so ‘nnamorata, Apocalì, sei l’omo de la vita mia… nun te ne annà… core, core ingratoooooooo»; dopo quel giorno non lo vedemmo più l’agente Apocalisse. Ad ogni festività, però, ci arriva un pacco dalla Svizzera con dentro un orologio a cucù di anno in anno sempre più sofisticato. Ormai ne abbiamo le pareti piene e nessuno che segni l’ora esatta, ma, quando meno te lo aspetti, gli uccelli cominciano a cantare in momenti diversi l’uno dall’altro, senza che ci sia una ragione, ma ognuno seguendo la propria taratura morale. La nonna smadonna e mia nipote sospira.

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