La latitanza di mio nipote continua da qualche parte tra Asia ed Europa. "Ricorrentemente", come dicono nei talk show televisivi sulla salute, dove gli avverbi fanno dittatura nella peristalsi comunicativa, da quando è stata resa nota, anzi come dicono loro «è stata svelata»ß la sua identità, veniamo invitati in trasmissioni sulle reti televisive nazionali e c'è sempre qualcuno che cerca di farci rilasciare interviste per la carta stampata, radio, tv, internet e perfino il giornalino della parrocchia del quartiere ha titolato con "La redenzione del peccatore: perdonare o meno?" con tanto di foto di mio nipote che dà fuoco agli alberi di natale dei vicini e un box con l'opinione del prete : "Perdonare sempre, ma dopo una giusta punizione".
Non abbiamo accettato inviti e interviste per molto tempo, anche se ci facevamo mandare i gettoni di presenza anticipati dicendo che ci stavamo riflettendo e che i soldi ci servivano per gli spostamenti necessari a raggiungere gli studi. Molte testate pubblicarono finte interviste alla nonna "disperata e sofferente senza il suo amato nipotino" e a me "lo zio, l'unica figura paterna disarmata di fronte le scelte del caro congiunto" con tanto di foto di mio nipote alle elementari nella classica posa con tutta la sua classe grembiule di forza e fiocco collare, recuperata da un ex compagno di scuola e ritoccata al punto da metterlo di fianco ad un abete con la didascalia che diceva: "Il giovane sovversivo quando ancora non odiava il Natale. Sembrava felice"; mentre in verità in quella foto mio nipote digrignando i denti mostra il dito medio al fotografo. Un avvocato ci contattò per fare causa ai rotocalchi, ma mettere piede in tribunale sarebbe stato rischioso viste le mie incomprensioni e contrasti con gli autori dei manuali di diritto civile e penale e le libere interpretazioni con cui giustificavo la sottrazione di beni (indebita per loro) negli esercizi commerciali.
I gettoni delle tv e gli anticipi dai quotidiani furono per un breve periodo la nostra unica fonte di sostentamento, visto che la pensione di invalidità della nonna era stata sospesa perché stavano conducendo accertamenti sulla sua (presunta per loro, per loro eh) sindrome che non le consentiva di sentire gli odori al di fuori dell'ambiente sensoriale della nostra cucina, senza che prima perdesse la memoria e poi si addormentasse seduta stante come davanti ad un branco di pecore leggere e saltellanti steccati di rose.
Infine, però, cedemmo al tubo catodico perché la nonna che aveva deciso di liberare le finestre dai guardoni mediatici seppe essere, a forza di botte, lividamente convincente con il resto del gruppo. Noi altri, infatti, gestivamo come potevamo l'orgia di attenzione: chi mostrando la pancia come i cani per farsi accarezzare, chi la varia anatomia a sua disposizione. Detto questo siccome le serrande alle finestre le avevamo bruciate l'inverno passato per farci il riscaldamento autonomo, io passeggiavo nudo a farmi fotografare nelle pose più strane, così da non essere considerato più «l'unica figura paterna», ma essere l'oggetto di «Beh, ora si capisce tutto», ché mi ci sentivo più a mio agio nell'essere quello per cui si capiva tutto, mi dava un tono, proprio dove solitamente non si capiva nulla, tra me e il mio corpo. Mia sorella, inoltre, per cui il nudismo per il pubblico non pagante era noiosa routine, decise che era ora di smetterla di spogliarsi a gratis per accolite private di fan e di calcare un vero e proprio palcoscenico, pensare a platee più vaste. Di certo non sperava in un pubblico diversamente assortito rispetto ai guardoni e alle indignate-ma-intanto-guardo, questo no, ma sperava di guadagnarci almeno qualcosa, fosse anche la colazione ogni mattina – magari senza di noi - perché se lavori nel mondo dello spettacolo «devi piacere al pubblico, è lui che decide e non ti fai illusioni, perché lo sai bene che il successo può finire da un momento all'altro, ma io in fondo sono una ragazza semplice». Così mi costringeva ad ascoltare mia sorella, bloccato sul divano, mi costringeva a fare la parte dell'intervistatore giovane e alla moda, proprio io che mi sentivo alla moda solo durante i funerali, intonato com'ero con il caro estinto che a volte quando si avvicinavano i tedofori delle pompe funebri, pensavo, e un po' ci speravo, che avrebbero afferrato me invece che il trapassato e mi facessero fare un giro come la madonna in processione e più ci pensavo e più mi sentivo immacolato e pieno di grazia – tanto che mi veniva voglia di ballare, immaginavo che i quattro muscolosi portatori di madonne mi abbandonassero disteso su un palco pieno di petali di rose e io, leggiadro come un pipistrello, mi levassi tra piroette e slanci sopra gli oooooohhhhhh della folla. «Lo sai Jimmy, vero? Tu mi capisci!», il mio aspetto non creava problemi a mia sorella, non la demoralizzava per nulla perché «anche tu ce l'hai fatta, lo sai come va Jimmy - così mi chiamava - il talento è il talento e se fatichi ogni giorno allora ce la fai. Ora sono così, ma prima di tutto questo lavoro su me stessa ero comunque già così, ma il talento cioè il talento è un'altra cosa» e io dovevo annuire sorridendo e a volte dire yeah, se non volevo essere colpito sulla fronte dallo star system rappresentato dal dorso di un cucchiaio d'acciaio schioccato come una frusta con colpi secchi e dolorosi, davvero dolorosi. Ma alla fine dopo aver interpretato l'inviato di riviste di moda, musica e gossip riuscivo a liberarmi e darmela a gambe e mentre mi allontanavo lei mi gridava «dacci dentro con lo spettacolo, dacci dentro con lo spettacolo». Di solito andavamo d'accordo, io e mia sorella, sarà stata la passione per tutto ciò che ci faceva perdere conoscenza, ma quei giorni furono davvero difficili. La fama le aveva dato alla testa e anche a me letteralmente mi dava alla testa con quel maledetto cucchiaio, nonostante già vivessi tra un capogiro e l'altro, ma per la fame. Lo pagavo tutto il mio non essere Jimmy: chiunque fosse Jimmy.
Il giorno dell'entrata nel mondo dello spettacolo, io, la nonna, mia sorella e la nipotina, quattro come i FabFour sembravamo appena usciti dalla copertina di Sgt. Pepper (and lonely earths band certo). Io volevo fare Ringo Star, ma mi toccò la parte di Lennon per guidare la carovana attraverso i corridoi degli studi televisivi.
Agli studi mi presentai con baffi finti, occhiali e camicia hawaiana per cercare di non farmi riconoscere dai miei debitori e allo stesso tempo per darmi un tono da intellettuale ma che non si prende troppo sul serio e sa dare il giusto peso alle cose; mia nipote sfoggiava il suo bikini e la fascia tricolore che si era fatta dare dall'ex sindaco della città a testimonianza del loro voto di scambio; la nonna abito nero e fazzoletto in testa e al braccio la borsa nera e pesante piena dei cimeli di famiglia da cui non si separava mai quando usciva di casa (la dentiera fatta in casa della bisnonna, la coda di capelli di mia sorella, l'urna cineraria del bisnonno, il dente aguzzo del pastore tedesco di famiglia che scomparve come gli altri dalla sera alla mattina dopo che annusò la voglia di farci polpette con lui, l'elmetto del tedesco che il nonno fece fuori durante la guerra, l'osso dello stinco di Arturo - il primo e unico maiale che passò dal nostro stomaco e che ospitammo sul balcone per qualche mese e di cui conserviamo una foto con lui al centro e tutti noi sorridenti e famelici messi lì intorno - una zampa di gallina, una pietra pomice), infine la nipotina era tutta vestita di rosa con ritagli di giornali di moda attaccati sul tutto il corpo e fingeva di essere una Hello Kitty Warhol (di lì a poco avrei pensato di metterle un guinzaglio se continuava a fare il pupazzo giapponese, ma la piscologa della scuola ci spiegò che era non era del tutto conveniente e che il travestitismo era un modo per scappare, per trovare una ragione per sfuggire ai problemi e mentre mi parlava io mangiavo i fiori nel suo vaso e masticando dicevo: «Quali problemi? Il travestitismo è una dote di famiglia. Quello che c'è nel posacenere lo mangia? Oppure posso portarlo via?»). La ragione dell'insistenza della nonna ad apparire in tv era proprio la nipotina. La nonna, infatti, fiera della sua prole, voleva dare a mio nipote la notizia che la più piccola di casa, sua sorella, per solidarietà, aveva deciso, ogni volta che sentiva il bisogno di credere nello spirito natalizio, di spedire le letterine di Natale all'associazione degli industriali, invece di indirizzarle al terribile nemico giurato di suo fratello, che «la sottraeva dall'afflato del caro congiunto» ci disse lo psicologo della scuola. Nelle letterine con la busta rosa e la carta profumata di ciliegia scriveva: "Dite la verità" oppure "Ammettetelo" e anche "So tutto". In Confindustria partì immediatamente un'ondata di suicidi e la disperazione tra i capitani d'industria fece in modo che il 78 percento degli operai ebbe un aumento di tre euro sulla tredicesima. In molte famiglie operaie ci fu un panettone da saldi in più e una nascosta, ma ingiustificata speranza, che forse, forse qualcosa stava cambiando: tre euro oggi, tre euro domani e così via fino a piantare tutti insieme la bandiera della felicità operaia su Monte Acquisto pieno di alberi di ferie al mare e fiori di straordinari pagati in anticipo. Tutto ciò fece vacillare il sistema economico e le certe emergenze ricorsive dei telegiornali. Per fortuna la crisi durò poco grazie a quei comunisti dei cinesi intervennero a colpi di milioni di yen, sostituendo i capitani, che non avevano retto le insinuazioni profumate alla ciliegia capitolando sul ponte di comando, con mozzi quindicenni, allevati a film di vampiri, assetati di licenziamenti e straordinari non pagati e una predilezione per lo schiavismo e il pregiudizio razziale appreso in anni di osservazione del sistema economico e politico americano. I suicidi cambiarono immediatamente sponda e ritornarono dove erano sempre stati: tra gli operai e i precari. Della speranza neanche più l'odore: tre euro ieri, tre euro mai più.
Negli studi televisivi ci disperdemmo subito. La nonna arretrava di fronte ai truccatori che le volevano levare il fazzoletto dalla testa, così quando decisero di acchiapparla con la forza cominciò a far roteare la borsa e il tonk dell'elmetto crucco sulle mandibole degli assistenti di studio distolse ulteriori tentativi di farle la ceretta al baffo secolare muschiato – molto utile se cercavi il nord e non eri in una foresta. Così decisero di farla accomodare con tanto di fazzoletto, baffo e borsa, mentre lei ne misurava i movimenti ringhiando mmmmrrrgggrrrr, mmmmmrrrgggrrrr, mmmmmrrrgggrrrr. Mia sorella scomparve nei camerini con una holding di produttori urlando mai così determinata: «VE LA FACCIO VEDERE IO, VE LA FACCIO VEDERE IO, VE LA FACCIO». Io preso dal panico quando mi fecero accomodare davanti lo specchio e mi misero il fazzoletto al collo cominciai a dire che, per favore, la fettina di manzo mi piaceva al sangue e i capelli sfumati alti e che non usare il deodorante era una scelta ideologica, una forma di protesta olfattiva contro lo spreco e l'avvilimento dell'immaginazione odorosa e che dobbiamo salvare tutti l'orso bianco. La nipotina miagolava, faceva le fusa e graffiava chi cercava di avvicinarsi, così i truccatori passarono rapidi con un antipulci e le lanciarono un rotolo di spago verso il palcoscenico.
Un'ora di mascara e kung-fu e la famiglia si ricongiunse nello studio davanti le telecamere e con il presentatore pettinato che cominciò a farci domande con il sorriso paralizzato e assecondato da una squadra di assistenti di studio. «E come va? E come va?» «Bene, graz-» «E allora questo nipotino, siete tristi?» «Ma, in effet-» «Ah, ah, vedo che non ci si perde di spirito» «La cara nonnina, povera, vecchia nonnina, le manca il nipotino» «Mmmrgrrr-» «Ma che brava figliolaaaaaa!!! Pasquale inquadramela un po' tutta la signorina qui, eh» «Io sono una ragaz-» «Oh, sì, sì, come no. La bambina che carina la bambina e ti manca il tuo fratellino? Ti manca eh? Povera, mi raccomando piangi in diretta» «MMMggrrrrrrrmmmrmrmr» «No, signora, nonna dico, faccia parlare la bambina, lei dopo si disperi però, e tu giovanotto dica al nipote che non gli farà più del male, che ha capito di aver sbagliato». «EEEEHHHYYYYAAAAAAAAAAAAAAA» e fu un attimo, si accese la lampadina degli applausi e la nonna era già con le ginocchia sul petto del presentatore tv e lo colpiva sul viso a mani aperte: ciaff (palmo), sciuff (dorso), ciaff (palmo), sciuff (dorso). Quello avvezzo alle battaglie a colpi di audience e grazie all'aiuto degli assistenti di studio si liberò dalla presa della nonna, che però riuscì a trascinarlo con sé per terra, mentre gli assistenti crollavano all'indietro. Sul pavimento dello studio la lotta non si arrestava e la nonna continuava a portare i suoi colpi con le ginocchia nei fianchi del conduttore, mentre con le mani cercava di strangolarlo con il fazzoletto da testa, urlando «STRUNZU, STRUNZU, IO T'ACCIDO, T'ACCIDO, T'ACCCCIIIIIIIIDDDDOOOOOOOOOOEEEEAAAAAAAHRG» ruggendo come bestia nella savana. Si fece largo e mentre veniva portata via dall'accalappiacani si rotolò fino al video e in un primissimo piano l'unica cosa che la nonna riuscì a fare fu di allertare il nipote: «di vedere un po', tu che viaggi tanto, di stare attento, caso mai incontri il nonno». E rassegnata a voce bassa mentre in sette la portavano fuori dall'inquadratura aggiunse: «chir'avutru cazzuuuuuu».
Dopo la prima uscita fummo richiamati diverse volte in televisione dalla produzione, ma nessuno dei conduttori in carnet era disposto a condurre le trasmissioni, né in diretta né in registrata. Così anche questa speranza di ingrassare andò a farsi benedire. Dietro consiglio di un agente per lo spettacolo portammo la nonna al circo: «iniziate in periferia - ci disse – provate e riprovate e poi magari qualcosa esce – e rivolto a mia sorella - Signorina, lei invece vedo che è molto dotata, brava brava!». Al circo nonostante la mia insistenza di farla provare nella gabbia dei leoni, il domatore indiano, il cui passaporto era prigioniero del capo carovana, dopo averla vista chiese un extra e la previdenza sociale e il capo ci mandò via urlandoci dietro: «Sindacalisti!». Mai giornata e fraintendimento fu più umiliante per la mia inveterata indifferenza politica e sociale.
Da quando ci hanno tagliato la corrente elettrica, e io ancora non riesco a stabilire gli allacci abusivi alla rete del comune, il televisore che ho preso in prestito dagli studi durante la battaglia della nonna, non lo abbiamo ancora usato, ma non riusciamo a separarcene, quasi come se fosse uno di noi, ma più saggio: «attenzione al televisore» ci diciamo mentre stazioniamo sul divano-stanza-da-letto in silenzio fissando lo schermo grigio, come se avessimo un ospite di riguardo in casa. Già sappiamo che una mattina anche lui se ne andrà sposato ad un esattore che riuscirà a fare breccia nel cuore della nostra magra resistenza.
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