Niente di niente, non servì a niente comunque nemmeno la nostra sortita televisiva e del nipote non ne sapemmo nulla per molto ancora – ma ne avremmo mai saputo? Il tempo passava e un altro inverno girava l’angolo e ci incrociava come al solito affamati e disoccupati. La sola pensione della nonna ci teneva in vita. Quando sperare era depressione e la fame tanta, allora non parlavamo più e seduti tutti insieme ci rilanciavamo le frasi fatte, l’aria fritta, tutto quello di trito e ritrito ci venisse in mente con la scusa che tra fritture e tritato ci rimanesse qualcosa nello stomaco: «La notte è fredda come il ghiaccio», «Fa così caldo che sembra di stare in un forno», «Sei bella come il sole», «Sento qualcosa come non so che», «Lavorare meno, lavorate voi», «Pane agli affamati, acqua agli assetati», «E gli vuoi bene alla mamma?», «Arbitro: cornuto!», «Dio ti ama», «Chiudere la porta, grazie», «Non aprire i finestrini», «Non parlare al conducente», «Era inverno. Faceva freddo.», «Dopo mangiato non puoi farti il bagno», «Non desiderare la donna d’altri», «Meglio un uovo oggi che una gallina domani», «Due più due, quattro», «Paolo non correre, che cadi», «Se ti fai male, ti picchio». Mentre cannibalizzavamo il nostro lessico cercavamo di sostenerci a vicenda inventando parole nuove per combattere l’anemia – molte erano sanguinolente perché tutti sognavamo una bistecca «al sangue, grazie» e la coppia perfetta: «Possiamo ordinare?» «Prego signori!». Così era un continuo masticare «cioccolardo», «tortigliaciccia», «patatacremasciutta», «polpasugograssata», «arrrroripienofritto», «rifritturacipollata», «sugogrondasugo», «frittatabroccololarda», «grassoalgrasso», «cipollottatriturolio», «porchepolpatate», «gelafagiolatato», «formaginzuppamiele», «fegatozupporchetto», «fagiolstrudellato», «cavolcremacioccorello», «sognasugna», «leccafegatobollito», «trippapienacaramella» «arrostaragoguarnito» «tritatotripparancia» finché non avendo niente da mandare giù, cominciavano ad arricciare le parole, piegarle, farci nodi giusto all’altezza del tubo digerente e ingoiare le articolazioni che ci sembravano più saporite. Si finiva in una serie sciamanica di consonanti biascicate seguite da guaiti e mise ad insulti: arrrggrrhhhhuuuuu, cipogrrrrsssshhhuuuuuuuuu, ‘nculammammataaaaauuuu, fritgrssuuuuuuuuhhhhh, porcattroiaaaaauuuu, porccndtuuuuuuuuuuuuuuuhhhhhhhhhhhh. Infine sdraiati uno sull’altro e con le guance doloranti come quando gonfi un palloncino d’aria fino a farlo scoppiare emettevamo solo brevi grugniti seguiti da sospiri e mugolare diffuso: ggrrmmfff, auuuuuuuuuu, grmrf grmrf uuuuuuu. Pensavo ai cinghiali liberi per la foresta, pensavo di essere un cinghiale e poi mi trasformavo in un indiano, un antico sioux che cavalcava culo a pelo di cavallo a caccia dei bisonti, veloce – neanche a dirlo – come il vento. Dallo stomaco, invece, nessuno notizia, che, merda!, quello non ce l’ha mica l’immaginazione. Così ci addormentavamo e sognavamo, o svenivamo semplicemente mentre arrivavano a frotte le allucinazioni un-due un-due un-due, «le visioni, le visioni» diceva la nonna stringendo con tutte e due le mani la corda di un caciocavallo dell’inizio del secolo scorso - l’unico caciocavallo intero che si ricordi negli annali digestivi della mia famiglia - intrecciata a formare una piccola icona a forma di F, come fame e come fede e fiducia (o fanculo dicevo io, non ascoltato dalla credente, quando mi riprendevo e c’era solo fame e niente fiducia, e di fede neanche a parlarne). Ma sognavo, almeno sognavo. Sognavo un muro di bottiglie di acque minerali che mi sovrastava chiedendomi di digerire ciò che non avevo. Dalla parete di bollicine emergeva un maître ben baffuto con tovagliolo sul braccio che mi elencava tutte le portate del giorno. All’inizio non capivo, c’era qualcosa di familiare in quella lista di nomi «Allora signore che cosa preferisce? Vuole che gliela rilegga?». Tra tanta roba non sapevo cosa scegliere e lo guardavo fisso, mentre cercavo di capire i nomi delle pietanze: «Ah, ho capito signore mi scusi. Lei non ci sente da quest’orecchio, ah ah - cambiava lato del tavolo – proviamo da quest’altro, ah ah – io mi allargavo tutto in un sorriso e accompagnavo con le papille gustative che piroettavano sulla mia lingua il dondolare dei lembi del tovagliolo - che piacere avere clienti spiritosi come lei gliele scrivo e poi mi dice o mi indica quello che gradisce!». Il maître tira fuori penna e rotolo di carta che si allunga su di me e in volute tutte già scritte. Cerco di leggere, ma non riesco: la scrittura, l’ortografia o la lingua è del tutto incomprensibile, anche se suona familiare, c’è qualcosa che mi offre un ricordo di qualcos’altro. Il maître mi guarda impaziente, ma non riesco a dire nulla: «Non sa neanche leggere, certo lei è straniero, non è di queste parti, vero? Sono desolato per la mia dabbenaggine. Ho un’idea, però, le faccio vedere le pietanze e lei sceglierà. Questa volta sceglierà, non potrà più permettersi di non capire». E quello scompare e riappare con tutta una musica che mi avvalzera le orecchie in sottofondo e iniziano a sfilare i carrelli portati da altri maître uguali a lui, sono tutti identici, tutti sorridenti, felici e con i baffi da inzuppare in scodelle giganti di sugo e starli a guardare gocciolanti. Mi circondano in volute con i carrelli carichi di vassoi, iniziano a fare caroselli attorno a me che inizio a ridere, a ridere, a ridere e non riesco quasi a stare seduto dalla felicità e loro anche ridono felici, siamo tutti sorridenti e mi sento leggero, quasi volo via: «E ora per lei, solo per lei messieur. Ecco tutte le nostre specialità. Uno, due e tre!». In uno sfavillio argentato tutti i coperchi vengono sollevati, mentre io sorrido con tutto me stesso e spalanco le braccia e apro la bocca più che posso per accogliere tutto l’affetto che il cibo sa dare e la luce che si riflette sui coperchi mi travolge e acceca: «E ora a lei, messieur! Mangi tutto quello che vuole! Si butti!». Spalanco le braccia e le mani, faccio per arrampicarmi e invece mi sento precipitare giù, cado giù velocemente seguito da tavolo tovaglia coltelli, forchette e cucchiai e nonostante i miei sforzi non ho più le mani, e cado in questo pozzo fatto di polli arrosto, «ne prenda ancora», orchidee, torte, porci affumicati, spighe di grano, «e questo le piace?», cumuli di canditi e allora comincio a cercare di mordere più che posso tutto ciò che mi capita a tiro, cerco di bloccare la caduta aggrappandomi con i denti, ma mastico aria e aria e allora comincio a piangere e più precipito più provo a mordere qualcosa. Mi risveglio perché il mio braccio comincia a sanguinare dai morsi che gli sferro in preda al delirio.
Una sera, resa più fredda e più vuota del solito a causa della compagnia della fame che da giorni ci strizzava lo stomaco e spremeva il ricordo del grasso superfluo, passeggiavo intorno al laghetto del parco sfogliando Il giovane Holden, ma soppesando tra i denti le parole sibilline e, speravo, nutrienti del mio vecchio insegnante di riproduzione di edifici storici con gli stuzzicadenti e ammazzamaiali per diletto. Camminavo e cercavo di convincermi delle sue argomentazioni riguardo lo stretto rapporto tra il suo affilatissimo e puntuto coltellaccio per sgozzare i maiali e la cura del sovrapporre uno dopo l’altro i leggerissimi stuzzicadenti di aereo bambù: «L’arte lo chiede. Al momento giusto, nessun tentennamento. Precisione, attenzione, decisione. E soprattutto nessuna pietà. L’arte lo chiede, sappi rispondere all’arte. Sappiti far trovare pronto». Tra un pensiero e l’altro, assaporando la prossima lezione in cui se fossi stato bravo mi avrebbe regalato le frattaglie della sua ultima meditazione maialesca, argomentavo contro il me stesso che in passato aveva avuto delle indecisioni vegetariane e debolezze animistiche, cercando di convincermi che l’utilizzo del tubo digerente non fosse il mio destino e, intanto, aspettavo che qualche anatra mi si avvicinasse per afferrarla, portarla a casa e farci cena. Attraversavo con aria sognante e la salivazione abbondante il ponticello degli innamorati, mentre con occhi languidi guardavo la navigazione di una bella oca grassa e placida, quando fui affiancato da un uomo di bassa statura che mi sembrò sbucato dal nulla, emerso dalle acque – che Dio lo avesse in gloria caso mai portasse i rifornimenti dal forte (nonostante tutti i miei sforzi di sano realismo e rassegnazione allo scalpo, aspettavo ancora la cavalleria. Che poi mi dicevo, provando a sentirmi parte di un gruppo di persone a cui dire la mia facendo la parte di quello che la sa lunga in mezzo ad altri che la sanno lunga, ma siamo tutti vecchi cowboy pronti ad affrontare la realtà: «quando cavolo finiremo di aspettare la cavalleria e apriremo gli occhi sul fatto che John è andato a puttane nel bordello di Molly e usa la bandiera per avvolgersi le palle?»). Ma questo tizio basso lo avreste detto alto come uno gnomo, ma se non foste stati nei miei panni e questo termine non vi avesse immediatamente ricordato la battaglia, senza risparmiare addobbi da albero sintetico, di vostro nipote. Ma tant’è, l’istinto e l’esperienza con gli agenti del Vaticano, mi spinsero immediatamente a verificare subito se avesse le scarpe o le orecchie a punta, ma dal suo doppiopetto e la sciarpa di cachemire, non rilevai alcun rapporto con possibili gruppi eversivi natalizi. Niente di rosso, neanche i calzini e nessuna musichetta ammiccante. Provai anche a coglierlo in fallo sussurrando un «Jingle bells, jingle bells, jingle…»; ma lui non ci cascò, non si lasciò andare chiudendo la strofa con «…all the way». Nemmeno Bianco Natale fece effetto. Era stato perfettamente addestrato a sopportare tutte le strenne possibili, oppure non c’entrava nulla con i fondamentalisti del Natale. Mentre mi preparavo a sferrare l’attacco decisivo chiedendogli se sapeva dove andavano indirizzate le letterine «…al Polo Sud o al Polo Nord?», l’uomo mi fermò prendendomi per la manica del giaccone ricoperto di pezzi di pneumatico da camion tagliati a strisce sottili quanto grissini che servivano da isolante e tuta mimetica insieme, e mi disse di “abbassarmi all’altezza della sua bocca”. A quel punto capii che era la mia grande occasione per vivere finalmente un momento vero, tutto pieno di locuzioni attese e frasi fatte, un momento in cui anche io avrei saputo cosa dire «segua quella macchina - le chiavi sono sopra il tavolo». Mi piegai sulle gambe e sperai che parlasse proprio al mio orecchio e lui lo disse proprio «al mio orecchio»: «Segui la quaglia». E io: «Cosa?». Ma lui con tono duro replicò: «Segui la quaglia, uomo, segui la quaglia». Detto questo non ebbi neanche il tempo di «aggrottare le sopracciglia», che quello si allontanò con «passo spedito» e scomparve tra le siepi «che escludevano il guardo». Restai per un po’ interdetto, finché dal laghetto si avvicinò un volatile e il mio stomaco ebbe un sussulto. Dopo aver verificato che non si trattasse di una quaglia, ma non sapendo come fossero fatte le quaglie, mi piegai proprio come avevo fatto prima con il nano. Di scatto partii con un balzo meglio di un ghepardo e quella sera mangiammo foie gras e mancò poco che dimenticai del tutto le quaglie e gli gnomi del parco.
Volente o nolente nei giorni successivi continuai a scrutare il cielo per cercare di avvistare qualche quaglia, ma neanche un gabbiano, un passero o chennesò un gustosissimo fagiano, si scorgeva. C’erano solo i piccioni, buoni da mangiare solo in casi estremi e farci un po’ di brodo, ma duri da mandare giù e che mettono tristezza. Le quaglie, invece, sono ottime per farci l’arrosto - ho sentito dire fuori dal supermercato dove mi spaccio per ispettore della finanza per provare a sequestrare buste di spesa - e quindi dimenticare la solitudine. Non ho mai visto qualcuno che avendo mangiato una quaglia si fosse sentito solo. In verità non ho mai visto nessuno mangiare una quaglia, ma sono sicuro che con una quaglia dentro ci si sentirebbe molto meglio, meglio che con un antidepressivo fatto in casa, come quando con mia sorella per dimenticare ci chiudiamo in cucina, bolliamo i pezzi di copertone e sveniamo senza il pericolo di sognare e farci sperare in qualcosa. La nonna ha imparato a salvarci. Dopo la prima volta, anche questi nostri tentativi con conseguente salvataggio da «Oddiommiochecosavetefatto», sono diventati una routine. Così, con mia sorella per liberarci dal senso di colpa, ci diciamo che è per non deludere la nonna e farla sentire importante che una volta alla settimana mettiamo su la pentola con i pezzi di pneumatico. Quando il puzzo invade le altre stanze, la nonna si alza e con il fazzoletto da testa calato sul viso, entra come un cowboy che vuole svaligiare una banca, apre la finestra e comincia a bastonarci dalla testa ai piedi con il palo della scopa finché non riprendiamo i sensi e ci trasciniamo fuori dalla cucina andandoci a godere i nostri lividi sul pianerottolo, rannicchiati sullo zerbino e spalle contro gli stipiti. A volte ci abbracciamo e piangiamo.
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